sabato 25 marzo 2023

Implicita missione. La fotosintesi della memoria di Claudia Piccinno

 


L’ossessione delle radici

Visioni del sud

 nella nodosa corteccia

 degli ulivi

 frammenti di luce

 in comode rate

 a colmare gli abbracci inevasi.

 Un libro, un taccuino, un caffè

 fan da cornice a quest’elioterapia del ritorno.

Non c’è scadenza, né vuoto a rendere

in quest’ossessione delle radici.

 Inizio d’emblée con una poesia di cui l’autrice si serve per scremare da subito il suo pubblico. Sì, perché – e qui Nietzsche docet – chi scrive dà precise coordinate di sé, di ciò a cui più tiene, e pertanto, più o meno coscientemente, seleziona il suo lettore. E quanto grondanti di tempo e tensione siano questi versi lo coglie solo chi, al sud di ogni origine, ha lasciato – e lascia ogni volta- l’altra metà di sé a cui basta una breve “elioterapia del ritorno” per ricongiungersi.

La premessa sta ad attestare che, già questa sola poesia, mi selezionerebbe tra i lettori della silloge di cui vado a scrivere.

Si tratta del libro vincitore del Narrapoetando 2023 per Fara Edizioni, “Implicita missione. La fotosintesi della memoria”: un titolo e un intero programma – tra l’altro,  alquanto impegnativo!-, ma  Claudia Piccinno è abituata a queste sfide.

Pregnanti e generative penso siano gli aggettivi più idonei per indicare le radici: non te ne liberi mai e inevitabilmente si diramano. E quando tornano a bisbigliare è solo per ricordarci che non fummo né saremo mai veramente orfani.

Siamo eredi, siamo sempre continuatori verso un sapere dell'anima, direbbe Maria Zambrano.

 La tavola delle feste

 

Amo le venature

 del servizio buono di mamma

 la porcellana numerata

 ormai invecchiata.

 Leggo le storie di famiglia

 dove riposano pietanze della tradizione.

 Rivedo la tavola imbandita

 e attorno…

chi è partito per l’eterno viaggio.

 Ci sono io bambina e mio fratello,

 le letterine sotto al piatto,

 le monetine se declamo poesia,

 mamma che stupisce i parenti col menù,

 nonna che traffica al lavello,

 i cugini in chiassosa allegria.

 Mi specchio nei piatti consumati

 custodi di festose memorie

 e li esibisco ancora

 coi bicchieri desueti di cinquant’anni fa.

 Scorre la vita,

 s’allarga e si restringe la famiglia,

 restiamo in pochi a tessere legami

attorno alla tavola delle feste.

 E ora, alzi la mano chi non si riconosce almeno in un verso di questa lirica che, sembrerebbe acuire e, invece, cancella ogni confine tra nord e sud: la tavola delle feste è la tavola della famiglia: l’impegno di madre e padre nel colmare i commensali di prelibatezze, l’allegria dei bambini, il vociare degli adulti, lo scorrere della vita intorno le festività consacrate, così che quel giorno diventi un tempo prezioso da conservare gelosamente tra le cose care.

Scrivere per smussare gli angoli, trovare soluzione, per rendere più leggibile la vita ma, chi scrive di poesia, lo fa essenzialmente per “riportare al cuore” – ricordo dal latino re-indietro e cor- cuore -, disseppellisce per ridare ad un “fu” la chance di un altro respiro.

 La mia Lecce - Poesia dedicata a Giorgio Mantovano

 

Bianca la luce

 bianca la pietra

 bianche le piazze,

 incantesimo dello scalpello

 la mia Lecce.

 Ingrata verso i suoi talenti

 ha ripudiato illustri menti

 e figli d’arte

 che altrove furono acclamati.

 La storia si ripete

 nei corsi e nei ricorsi.

 Riaffiora l’Idume con la gola secca.

 Si svelano le corti alla controra

 coi pergolati e ficus aggrovigliati.

 Fu culla dei Messapi, e Magna Grecia,

 affiorano rovine ad ogni scavo,

 fu patria del Barocco,

 fucina del Risorgimento.

 Fermenta la vita di giorno

 si esalta di notte nei vicoli angusti.

 L’estro sulle ali dello Scirocco

 risveglia memorie lontane.

 Suona il cembalo

 e accenna la pizzica.

 Bianca la pietra

 bianca la luce

 pasceva la lupa

 nelle foreste di leccio,

 ci guarda dal frontone

 a Sant’Irene,

 del turista

 attende il saltello

 nel mosaico della Piazza.

 Sant’Oronzo c’impartì

 la sua Benedizione.

 Giorgio e la sua umiltà

 mi siano di lezione.

 

E mi servo liberamente - e indegnamente - del grande Edmond Jabés* per una chiusa che vorrei ritardare, rischiando così di svelare troppe poesie:

se è vero che viviamo di scritti e moriamo di cancellature, sarà anche vero che la Terra dell’infanzia, dell’adolescenza, della maturità e della vecchiaia. La Terra del sogno e della ferita, non sarà mai Terra d’oblio.

 

* Dal libro Uno straniero con sotto il braccio un libro di piccolo formato.