ACCIAIOMARE
– IL CANTO DELL’INDUSTRIA CHE MUORE
Angelo
Mellone – Marsilio Editore 2013
Tutto
ruota intorno a un ricordo: nello stabilimento dell'Italsider viene celebrato,
alla presenza di migliaia di addetti ai lavori
-dirigenti e operai- il rito funebre di uno di loro, morto tra i veleni
di quella fabbrica -non è uno dei tanti, ma tra i fondatori. Alla fine del rito,
qualcuno consegna al figlio tredicenne - il nostro autore- l'elmetto giallo con
su stampigliato il nome del padre (pag.30)
Qui niente lacrime
neppure per il ragazzino intabarrato
in scioccata
compostezza,
anche lui soldatino
attrezzato del casco di suo padre
qui la civiltà chiede
carne
e carne riceve
e sangue che orina
orgoglio e non piscio,
e sia maledetto chi
sputa sulla Storia
“Ē tān ē epi tās ”o reggendo lo scudo (da vincitore),
o steso sullo scudo (da morto). Era il motto del guerriero spartano: gli era
consentito di essere vinto solo al prezzo della sua stessa vita. Alcune “vittime
del lavoro” hanno lo stesso profilo e il virgolettato, nello specifico, non
rende giustizia senza il chiarificato di Primo Levi "l'amare il proprio lavoro, privilegio di pochi, costituisce la migliore
approssimazione alla felicità sulla terra” - (pag.35)
Acciaio chiama acciaio
e mare chiama mare
e, padre mio, ti sarai
nascosto in chissà quale
arcobaleno
di vapori su mar piccolo
per riguadagnare alla
svelta
il fronte di produzione,
e raggiungere altre
anime laboriose
e impazienti che
non si danno pace poiché
il progresso costa, e
stanca,
e usura la stessa
sostanza con cui si riproduce.
I
ricordi di Angelo Mellone hanno inizio da quel giorno, il funerale del padre. Non
c'è un prima che meriti la considerazione di essere appuntato, semmai un
continuum: un mietere raccogliere e investire sempre -e attorno- lo
Stabilimento (pag 28)
Nonna Anna
aveva consigliato
l’acquisto di una branda,
possibilmente comoda, da
tenere in stabilimento,
poiché il letto di casa
veniva abitato e
scarmigliato nelle lenzuola
saltuariamente solo nei
fine settimana.
con il rischio eventuale
e cogente
di abbandonare il
minestrone
a ghiacciarsi nel piatto
e indurire le polpette
Chi
l'ha vissuto lo sa: il breve lasso di tempo, dalla morte di chi si ama, al suo
scomparire sotto un tumulo di terra, è scandito da una sorta di via crucis. Si
attraversa in un insolito torpore che -vivaddio- confonde il vero da un sogno: una differenza tra gli uomini -c’è
sempre, più o meno consapevolmente, un brandello di Nietzsche quando si parla
di umanità/vita- è data dal quantitativo
di realtà che ognuno riesce a reggere. Ma c’è un dolore perfetto che spaccherebbe chiunque se il veleno -che porta in sé quel dolore- non fosse assunto
a piccole dosi.
A
ben vedere, quanto accende e infiamma (perché -paradosso!- raggela) è la storia
di un territorio -Taranto- la cui sussistenza gravita intorno un mostro d’acciaio
che sbandierava la sua potenza sull'intera nazione, una sorta di gonfalone sul
corteo di un progresso che entrava a passi grandi (pag 37)
Acciaio, vanto
traslucido del distretto
di Occidente
immaginato a emblema
di un secolo intero, il
novecento delle masse
in movimento, dei
cantieri insonni, delle terre
sbudellate,
dei ponti dei
grattacieli e delle navi immense,
delle stive e delle
casalinghe e delle piattaforme
off-shore.
Anche
Taranto, come ogni altro angolo del meridione, subì l’emigrazione. A leggerne,
in questo libro, sembra quasi di intravedere uno di quei bastimenti carichi di carne umana: si
distinguevano gli emigranti di poppa, impalati dalla malinconia nel vedere
sfuocare l’ultimo brandello di casa, dagli emigranti di prua che scrutavano
l’orizzonte, impazienti -più che a dare- di ricevere un qualunque saluto dal nuovo
continente.
Erano
partiti
caricandosi
in treno pomodori secchi
e
vino rosso e pastoso e pane di crosta dura
viaggiando
con l’adriatico a oriente.
Erano
partiti
per
farsi macinare i polmoni nell’asbesto
di
qualche capannone svizzero adibito
a
vernissage dell’amianto bleu.
Lo
scritto fa parte di una trilogia delle radici -di cui AcciaioMare costituisce
la seconda puntata, dopo Addio al sud, Marsilio Editore- estese sino a toccare
-e denunciare- urgenze vitali di quel territorio, nette prese di posizione del
Nostro -argomentate magistralmente e non da tutti condivise o condivisibili. A
me è piaciuto scandagliare il filamento umano che lo pregna, e motiva di un
profondissimo amore la parola.
Non c’è presa di
coscienza senza sofferenza. Non si raggiunge l’illuminazione – Carl Gustav Jung, quasi ad
incoraggiare l’autore- immaginando figure
di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore. Chi guarda fuori
sogna, chi guarda dentro si sveglia.
Come
a dire che nel ciclo di una vita tutto si accumula nella pancia della memoria:
materiale che edifica il passato di ognuno -quello su cui poggerà l'uomo. È una
necessità, dunque, eliminarne le tossine: dalle più dure a smaltire, Mellone ne
ha distillato poesia.