La condizione infantile è quella che più spesso ci
sembra di rimpiangere durante il corso della nostra esistenza: la crescita e la
crudezza degli eventi della vita adulta ci spingono costantemente a tornare con
la memoria alle origini di noi stessi e al bisogno di protezione che non
smettiamo mai di patire, e che nel tempo si tramuta in desiderio d’amore. Il
“bimbo di ieri” è dunque la piccola creatura che allattiamo al seno, ma siamo
allo stesso tempo noi stessi che ripercorriamo strade antiche e che regrediamo
verso l’utero primordiale, senza che “il tempo intacchi o deterga” il “richiamo
inappellabile” della sola grande Madre. I versi di Piccoli forse di
Angela Caccia (LietoColle 2017) traducono in poesia questo controverso senso di
maternità e di amore per una terra che ci ha dato la vita (“terra mia terra
/trama, identità, laccio carnale”), e in cui riconosciamo il principio di un
rigenerarsi sempre uguale della natura, di fronte alla finitezza di noi uomini,
vincolati da un’ “equazione” in cui le incognite sono il “suono” e il “mare”,
antichi richiami di un Altrove sconosciuto, da dove proveniamo senza saperlo.
Mentre però noi non siamo più piccoli, e resistiamo nell’ipotesi di
un ritorno impossibile all’infanzia, altre vite nascono e vanno celebrate per
la loro purezza: ecco quindi che la neonata Gaia è rappresentazione della
“bellezza che torna e incanta” e l’immagine del piccolo Michele che prende il
latte dal seno materno è un vero e proprio “schianto della tenerezza”.
Nella seconda parte di Piccoli forse (Il
grande terrazzo) Angela Caccia riflette sulla solitudine, condizione ultima
e unica a cui sono sottoposti tutti gli uomini una volta usciti dal rifugio del
corpo della madre, quando il tempo falcia gli affetti e silenzioso lascia
andare i giorni. Di fronte allo scorrere del tempo tedioso ci sono “due
modalità” di approccio: o tendere sterilmente al passato (“tornare sui propri
passi / a riannodare fili”) o tentare di affacciarsi sul futuro, decidendo di
“nascere oggi” nell’atto coraggioso del ricominciare. Dopotutto “si viaggia
tutti /con un’Itaca nel cuore” ed è soltanto questo il senso del viaggio:
muoversi con la nostalgia che ci guida, vagare senza meta predefinita in cerca
dell’evento rivelatore, ma infine tornare alla casa, riaggrapparsi alle radici,
poiché “il risveglio è questa macchia / lontana di fiori” e sul grande terrazzo
fiorito Angela torna sempre, anche se la “chiamano solitudine” (ma non lo è, è
dialogo fertile tra l’Io e “un ritaglio di cielo”). Anche la notte è fedele
compagna di questo ripensare incontrollabile all’origine: “la notte ti torna
sorella, / così vera che ti sarà facile / dormirle accanto”, mentre il suo
abbraccio oscuro cura le ferite dell’ “inciampo” dei “ricordi, della “somma
delle tue piccole morti, / delle altrettante risurrezioni”.
Dalle sughere e dalle pietre, terza sezione di Piccoli forse,
contiene una vera e propria “mappa delle assenze”: l’amore perduto è il cardine
di ogni impossibilità del ritorno, dal momento che la “prima rosa di marzo” ha
punto il poeta fino a spingerlo a mettere la parola fine a quel percorso di
ricerca spasmodica di condivisione che mai si realizza pienamente. Dopo aver
posto il nome della persona amata “a sigillo del racconto”, il poeta prosegue
nell’odissiaco viaggio attraverso le inevitabili (“l’inesorabile è in atto”)
tragedie umane (la Shoà, l’attentato di Nizza), eventi che rendono la storia
inclemente e priva di carità: “riaprire gli occhi / ma sulle
macerie è il risveglio più reale” e più “mostruoso”.
L’uomo dunque arriva ad essere, nella
quarta parte della raccolta(Da una casa sull’albero), una “piccola
foglia / che trema / nell’adagiarsi della sera” dopo aver sperimentato il
dolore della nascita e della perdita: strappato ad una infanzia dorata,
desideroso di amare e di mettersi in cammino, oppresso dallo spettro
persistente della disillusione (“Itaca è l’inganno!”), l’Ulisse del nostro
poeta ritorna ai suoi porti stanco, e comunque ancora insoddisfatto (“stanco
Ulisse, / stanca la sua zattera / di vani porti”). “Le stelle / reggono a
stento / una notte”, come i chiodi reggono a stento i remi di Ulisse lasciati
al muro immobili ad asciugarsi. È il desiderio di cercare ancora,
l’insoddisfazione di chi ha percorso tutte le strade possibili e non ha trovato
nemmeno una risposta: proprio come l’Ulisse de L’ultimo viaggio di
Pascoli, che per ricercare il senso della propria esistenza si rimette in
viaggio per ripercorrere i luoghi del suo mitico peregrinare, non ritrovandone
più neanche uno, fino a scontrarsi con il mistero della morte pur di non
rimanere ad Itaca fermo, al sicuro dinanzi a un fuoco caldo ma muto. L’Ulisse
di Pascoli preferisce andare incontro al proprio destino nel tentativo di
ascoltare la verità per bocca delle sirene, che invece sono solamente scogli
appuntiti contro i quali la sua zattera si infrangerà, distruggendosi. Ecco che
quindi non essere mai nati è preferibile al dover morire (“– Non esser mai! non
esser mai! più nulla, ma meno morte, che non esser più! –”), perché si vive di
sottrazioni continue, “senza la promessa di un ritorno”, dice Angela Caccia,
riferendosi alla perdita del caro padre, così come alla perdita di tutte le
cose e di tutti gli affetti.
La
partenza però è condizione essenziale della ricerca, alla quale come abbiamo
visto nessun uomo deve sottrarsi, pena la noia sterile, ed è per questo che il
poeta continua à rebours il suo personale itinerario nei
luoghi più ambigui della mente e del cuore: “ogni abbraccio – qui – suggella il
debito / di chi parte: restituire /a chi resta il cuore”. È, infine, davvero un
nostro dovere andare, perdersi e ritrovarsi nella ricerca (seppur vana), perché
bisogna provare il piacere del ritorno o del non-ritorno, sentire che si è
comunque giunti, dopo aver attraversato a proprio modo “il mondo”, che altro
non è se non “questa stanza stretta /ad ognuno il suo metro cubo di /desiderio
e realtà che fanno a botte”. Al poeta spetta il compito di “tenere accesa una
qualunque / scintilla” nel buio denso di questo mistero senza direzione.
Eleonora Rimolo
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