Dal sito Poeti del Parco
I “grandi dubbi” fanno grandi i drammaturghi e le loro opere; i “piccoli forse” che accompagnano l’agire quotidiano, testimoniano una continua ricerca della verità nel fare e disfare ed un’attenzione a sé e agli altri, senza presunzione.
La raccolta “Piccoli forse” Lietocolle, 2017di Angela Caccia si può leggere come un lungo racconto di un cammino, dove ogni passo è ricerca d’un equilibrio nuovo, senza appoggiarsi a segni di interpunzione – ridotti all’essenziale – né ad altri segni grafici: il senso ed il suono d’ogni parola è dettato da una scelta accurata, frutto di un lavorare poetico paziente e intenso.
“Dalla torre campanaria”, “Dal grande terrazzo”, “Dalle sughere e dalle pietre”, “Da una casa sull’albero”: sono le quattro sezioni della raccolta, che si offrono al lettore come diverse prospettive da altrettanti “spaziotempo” ed evocano plurime sorgenti del fluire di vita e di pensiero.
Dalla torre Campanaria
“nel vento una campana/ piccole note a pioggia/ una lingua di vocali piane/ il sorriso che sboccia lento// -poi tace- gioca di sponda/ un silenzio perfetto e tuona in petto”
Introduce la prima sezione, nella quale prevale il ricordo che, rara malinconia, mantiene piuttosto il legame con il presente, in una unità di vita...
richiamo inappellabile, nocche
che tornano a bussare, antico palco
– rumori ancestrali di feste e dialetti
in cascina, ruzzano i soliti gatti
nell’ombra scarmigliata degli alberi
ninne di pianure in giallo spiga, la mano
che fruga, il seme che s’accoccola, ogni
vento è famiglio che la impollina,
meravigliosa(mente), terra mia terra
trama, identità, laccio carnale
...nel tempo circolare dei giorni, accompagnati dal ritornare a sé ed ai propri significativi legami, al ritrovare uno spaziotempo proprio e originale
tornare ad amare è come
ritrovare una direzione
essere ancora capaci di una
carezza – eppure, così scollati
dai più che la cercano –
riprendere a leggere di me di te
dal rigo abbandonato
dai desideri miei e tuoi
di dare loro una casa
è una ferita la bellezza
che non si infilza sul foglio
un dolore acuto e gustoso
in cui l’io – felice – si dibatte
e sbatte come l’insetto ai vetri
stremato
fino all’incondizionata resa
di lei
nessuna formulazione
solo questo morire di dolcezza
in cui ritrovarci la sera
Dal grande terrazzo
La seconda sezione s’apre con questi versi che ne danno senso e contenuto e vengono declinati – in special modo l’ io e il me – nelle poesie che seguono
“e la chiamano/ solitudine questo/ grande terrazzo che/ l’io e il me coltivano a fiori”
tutto ciò che Angela può regalare è la delicatezza e l’attenzione per le cose che non dipendono dalla nostra bravura o dal nostro sforzo, ma che noi possiamo “curare” , aiutare a crescere, come una creatura, come un figlio: in fondo non è questo l’agire del poeta? Dare il “nome”…?“sgusciare nel giorno:/ tornare sui propri passi/a riannodare fili, oppure/ ascoltare un fuori campo/ disertarsi /e decidere di nascere oggi”
cosa offrirti, se non questa
tenera aiuola salvata al disincanto
della pioggia?
fuori piove nevica baruffa, ma qui
ha stanza un piccolo sole che sconosce
la disperata fumea al di là della porta
cosa offrirti, se non l’ultima
rosa di marzo, la parte di me che non contratta,
l’istinto che s’impenna
i sogni che non collassano, un nòcciolo
luminoso, intatto, e – al di là di quella
porta – null’altro di ciò che sono
ma ancora più significativa la seguente, che rivela umiltà profonda e vera di chi si sente “parte di un tutto”, di chi entra nella Poesia con onestà e delicatezza...
il giardino delle rose
piccola grammatica
per gente semplice
mescolo con tutti
i sentimenti
semini lucidi e lisci
è una ferita la bellezza
che non si infilza sul foglio
un dolore acuto e gustoso
in cui l’io – felice – si dibatte
e sbatte come l’insetto ai vetri
stremato
fino all’incondizionata resa
di lei
nessuna formulazione
solo questo morire di dolcezza
guardo attraverso
e tra le mani
mi nasce un fiore
ma quel che scopro
scavando non sono io che
l’ho piantato
e ne vive il gusto del dolore, perché la vera Bellezza ferisce il cuore e lo fa sanguinare e si muore dolcemente. Come dolcemente si vive.
Dalle sughere e dalle pietre
“micro eternità/ sfondi immutabili/ di pietre che non sudano/ mai/ e sughere nel mare”
Qui l’Autrice si lascia andare ad un pianto silenzioso e misurato e le lacrime sono le parole, “mio punto di riparo”: nelle domande semplici e grandi insieme, si cela il mistero della vita, che forse appartiene al mistero d’ogni vivente “sarà mai del petalo/ il mistero della rosa?//. O nel grido - “Lanciato il programma/ l’inesorabile è in atto” - quando i gesti folli e disumani non permettono più di “educare le pulsioni”
come assestare questo piano
inclinato, si scivola lenti e tutti
ad una morte sempre più anonima
numerata col dubbio che
sia ancora rosso il colore del sangue
è un diritto di chi ha vissuto
guardarla negli occhi, lasciarle
il proprio nome a sigillo del racconto –
un tonnellaggio di morte che vagola in noi,
una croce per poco, da qualche parte
da qui al di là del cielo
quale la tua debolezza,
la cellula della compassione
l’archivolto sotto il palco
e gli indici che si toccano
e ogni Adamo ti chiama Padre
lo sappiamo entrambi:
il vizio di scrivere parole
è solo un mio punto di riparo
e chissà se le stelle profilerebbero
il tuo volto se le legassi
con un tratto di matita
sarà mai del petalo
il mistero della rosa?
...fossero i giorni della
clava, torneremmo
ad educare le pulsioni
e invece
lanciato il programma
l’inesorabile è in atto
silente
mostruoso big ben,
riapriremo gli occhi
ma sulle macerie (Nizza Luglio 2016)
La Casa sull’albero
la mia casa sull’albero/ è la terra che non calpesto/ da sarchiare e ricomporre/ la osservo la sfarino a/ piccole dosi e ridiscendo
E’ questo il rifugio dell’infanzia, il luogo di pensieri solitari e di giochi, di riposo nel desiderio di allontanarsi dal tempo e dallo spazio abitudinario; ma è anche atteggiamento di profondo rispetto per la terra, così da non calpestarla con la propria impronta... mentre anche il cielo si “appunta” alle stelle per non cadere
stanco Ulisse,
stanca la sua zattera
di vani porti
Itaca è l’inganno!
chiodi, le stelle
reggono a stento
una notte altrimenti
in predicato di cadere
appiombo sul mare
la solita luna beffarda
ha pietà solo di ciò
che silenzioso dorme
C’è poi spazio per un breve ritratto del lavoro svolto da Angela, “insegnare realtà ai sogni”, lasciando spazio alle altrui leggerezze e creatività: spinto al punto di dire “apro/ la porta e me ne vado//”
al mattino la solita chiassata
li invito a sedere nei banchi
tutti azzimati, fiocco
vaporoso e braci negli occhi
mi soffermo a guardarli
qualcuno scalpita, altri
alzano la mano, i più impacciati
quelli all’ultimo banco
insegno realtà ai miei sogni,
a volte mi siedo con loro e sfumo
in leggerezze, a volte apro
la porta e me ne vado
Perché imparare “ad ascoltare e ascoltarmi” - dice Angela - viene da ogni vivente, da un albero un fiore, un animale; proviene dai suoni e dagli odori dell’esistenza, dai particolari - “la piana nervatura della foglia” - che si colgono fuggendo la fretta che ci rende superficiali, l’efficienza che ci rende macchine, le grandi filosofie, che ci rendono complicati. Vivere, appunto, con i “piccoli forse”, stando “dentro” il tempo ed il mondo.
più di me fu l’albero, il cantuccio
di un raggio – e ressi anche la brina –
conobbi il solletico delle lumache
sul dorso, il brusio del grano
l’ombra che lo inserra, l’odore
trionfale del giglio, il giallo
della sua gola e le api in girotondo
così imparai ad ascoltare e ad ascoltarmi
ma più di me fu l’albero, su questa
foglia d’oggi la sua piana nervatura
Maurizio Rossi
Nessun commento:
Posta un commento
se vuoi, di' la tua...