Toglierti
dalla nicchia, sradicarti dal bordino dorato di un santino che ti fa Madonna di
stelle e lontana anni luce, per invitarti a sedermi di fronte. Che senso ha
inserirmi tra le più alte beatitudini, tra quelli che “crederanno senza vedere”,
se sai bene che ho bisogno di farlo carne questo credo, di farlo ora e futuro
prossimo, e anche passato, nella misura in cui potrò cambiarvi il finale.
Sai quante
volte ti ho immaginato in un semplice abito di cotone… di quelli morbidi che
lasciano intravedere le forme belle, senza accendere pensieri maschi, forme di
donna più che di femmina anche se il tuo sguardo include entrambe. Ti chiamo
perché tu sia in qualche modo di corpo, di voce e respiro, di capelli lunghi e
legati alla nuca, di pelle morbida e soda, di mani semplici, di dita che
conoscano il lavoro duro, senza unghia laccate. È un’impresa, lo so, ma ci
provo ogni volta e a volte succede, succede che io parli e mi sembra di non
parlare a vuoto. Conosco degli scrittori molto bravi a materizzare un semplice
pensiero, e tu, che sei pensiero di fede, dovresti avere più forza e volontà a
renderti presente al mio presente: ne ho blaterate troppe avemaria, ora ti sto
chiamando, per nome e a parole mie …
Ho bisogno di
sapermi con la testa sulle tue gambe, che i miei silenzi -e, sul fondo, i
pensieri molesti che tintinnano- li
farai tuoi, a rinfrescarsi di te. Il mio olfatto al tuo grembiule che odora di
pasto: a noi madri viene facile dire al figlio “ti amo” con un piatto fumante in
mano e, dentro, il desiderio che lui viva e viva bene. Ma non basta… da un
certo tempo in poi bisogna che siamo noi, le madri, ad imparare il linguaggio
della “diversa” comunicazione perché diversi sono gli interlocutori: lui è il
grande, noi/io, che gli insegnavo tutto, ora sono quella che dovrà imparare –il
tempo nuovo, i nuovi dolori, le felicità diverse, il silenzio ai silenzi- e non
ce lo insegna nessuno se non il nostro amare: quel sottilissimo strato di
placenta che rimane sulla nostra carne come una obbligazione inestinguibile, e
sulla sua, a protezione ancora, come allora. Ciò che spero è che certe esperienze troppo sofferte
contengano l’invisibile desinenza “mater”, una parola/sentiero che rimandi a
braccia rimaste aperte, lì dov’è la possibilità di consumare un dolore insieme,
con calma e pazienza.
Converrai
con me, non c’è nulla di democratico nell’amore, un vero despota, un esagerato
all’ennesima potenza: solo un ossimoro la locuzione “amare con moderazione”: o
si ama e tutto il tuo essere è la lingua di ogni fiamma in un continuo
incendio, o non si ama, e allora si fa un’altra cosa, ma non si ama!
E ad essere
madri –chi più di te lo sa! – consuma. A volte, una mano pesante sul petto che non
fa respirare, è allora che capisco: da sola, per quanto mi sforzi, non potrò
farcela, ho bisogno di un cuore più grande, magari un millesimo del tuo, che mi
faccia capace di affidarmi e affidare e giungere al porto sereno del fiat
voluntas tua dove il cielo, se non è aperto, ne ha tutta la promessa.
Madre
sorella e, più di tutto, amica … lascia che ti chiami per nome. Come la più
grande delle nostalgie, torna a dirmi che solo un battito fervente ti porta ancora
qui, in questo tempo in questo spazio, a consolarmi di Te, affinché anch’io sia
madre di silenziose promesse e, come te, madre di consolazione.
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