mercoledì 12 agosto 2015

Tra enigmi e dolcezze 'Il tocco abarico del dubbio' - recensione di Marco Tabellione





Dimostra una dolcezza e una sensibilità spiccate la nuova raccolta di Angela Caccia "Il tocco abarico del dubbio", Fara editore. Una poesia di estrema dolcezza, ma anche gnomica e sapienziale, che esplora la vita e i suoi significati, fino a giungere ad una riformulazione del concetto di sacro. La sacralità della vita viene in questo modo sottratta al contesto religioso e riformulata in un senso tutto profano ed esistenziale, in cui la dimensione onirica diventa il punto di riferimento principale. Tuttavia ciò non comporta una separazione dall'elemento reale, ma piuttosto una sua proiezione in un ambito più elevato, sublimato. 

   Si tratta infatti di una poesia duale, che alterna momenti di grande apertura comunicativa ad altri più criptici ed enigmatici. Il verso di Angela Caccia spazia tra sogno e realtà, tra speranze e abbattimenti, con immagini ora riferiti ad una dimensione ora all'altra, come nella bellissima descrizione delle braccia allungate dell'alba tese a segnare un'ennesima illusione di felicità, propria del finale della lirica appunto intitolata "Le braccia allungate": "A chi amo, tra un'eco e la voce, il mio amen, e le braccia allungate dell'alba", dove le braccia sono sì quelle dell'alba, ma per metafora rimandano ad un desiderio di liberazione che è proprio dell'individuo. Una voglia di elevazione che coincide anche con la scoperta di paesaggi interiori, di spiritualità emotive e sensitive nascoste nell'anima, in quel paese interno che la poetessa disvela quando sostiene all'inizio di una poesia dedicata alla madre: "C'è un paese in me che non conosci". Ritorna il senso di un'altalena tra gioia e dolore che agli albori della poesia moderna Baudelaire aveva racchiuso nel suo Spleen et Ideal, e che Caccia riesce ad evocare con un verso di grande forza evocativa, affermando che è appunto l'ombra a permettere la luce: "Ogni ombra, per quanto buia, segna il perimetro esterno della luce". 

  A volte il lirismo della poetessa si fa apertamente realistico. Si tratta di un realismo sociale, legato a valori di solidarietà come quello ad esempio che caratterizza le liriche dedicate agli immigrati di Lampedusa, in cui la poesia di Caccia presta la propria voce ad una tragedia senza limiti che ancora l'Italia non riesce ad affrontare in maniera organizzata. In generale, tuttavia, le storie e le vicende altrui sono comunque intercalate nella raccolta in una dimensione intimista a cui quasi tutte le poesie si rifanno, poesie che spesso pongono l'accento sulle illusioni d'amore e di vita le quali caratterizzano l'animo della poetessa. 

Vi è a volte, tuttavia, un bisogno di volo, di innalzamento (e viene ancora in mente Baudelaire e la sua bellissima "Elevazione") che si cristallizza in una tendenza alla fuga, o comunque all'elevazione appunto, ad un'irresistibile tendenza verso l'alto, verso il cielo, come nel finale di una lirica in cui la poetessa esclama: "E noi sopra le stelle", quasi a reclamare una dimensione esistenziale superiore, richiamo che tra l'altro attraversa l'intera raccolta. 

  Insomma si è alle prese con una lirica ed una poetica tese verso verità profonde che sono le verità indirette e nascoste del cuore, quelle che nascono nella solitudine degli animi, una solitudine che Angela Caccia rappresenta poeticamente attraverso immagini di rara bellezza, come la finestra illuminata nella notte della lirica "Fantasie": "Lo sguardo su una cartolina, profana il reticolo di falso, mi perdo nel notturno di un paesaggio, una carezza la colatura della sera - quant'è quieta la luce di una finestra accesa!". 

  Va inoltre riconosciuto, però, che in Caccia domina anche la disperazione di vivere in un'epoca fortemente antipoetica, dove la morte, come la vita, non è altro che "un vago retrogusto, un rumore di fondo". E di fronte a certe impossibilità dell'esistenza, alla fine la poetessa sembra adottare un piano che mira alla riduzione del dato esistenziale. E' come un voler scomparire per evitare dolori e delusioni. Ecco cosa scrive l'autrice in "Non ho un titolo": 

Scomparire in lenzuola candide di dimenticanze
tra pollini tiepidi 
indolenti comunque fecondi

sperdersi nei pochi silenzi del giorno
così colmo ogni giorno di prole

piantumare di nulla le proprie orme
che spieghino almeno pace calma

sconfinare il proprio corpo in transumanze
di mente e cuore

osservarsi finalmente a galoppare
il tratto più etereo dell'orizzonte.

  E' come se l'autrice cercasse una soluzione al dramma esistenziale nella creazione di una sorta di inconsapevolezza, o meglio di inesistenza a cui molti versi di Caccia fanno pensare, come se lei stessa volesse esclamare: "Essere come se non si fosse". Altrove dice: "E chiedi a me il senso della vita", comincia così infatti una poesia rivelatrice, dove Caccia finalmente addita una soluzione al marasma contemporaneo. non tanto in una risposta di saggezza personale ed egoistica, quanto nella vita condotta assieme, in esperienze che solo nell'unione possono condurre ad una dimensione superiore e salvifica: "E chiedi a me / il senso della vita // a me / che ho mille risposte / e nessuna […] un abbraccio questa notte d'estate […] restiamo insieme / ti prego […] e insieme / nell'ultimo spicciolo di notte / saremo noi l'aurora / gli occhi puntati ad est / e il fiato corto".

  Da questi pochi esempi è evidente che si tratta di poesie che offrono una lettura profonda, ma nello stesso tempo piacevole e coinvolgente. Poesie che si mostrano capaci di indicare verità edificanti, ma anche di accompagnare nella dimensione sensoriale dell'autrice, ricca di avventure metaforiche e romantiche. Tutto questo si lega ad una difesa ad oltranza dei sentimenti duraturi, quelli che si conquistano a fatica ma per lungo tempo, poiché è proprio della poesia sottolineare profondità e longevità, perché la poesia, sostiene l'autrice, è piuttosto uva che non fungo. Luglio 2015