Fin dalle prime liriche mi
era frullata un’idea sul loro sapore, idea che continuavo a rigettare, pensavo riflettesse
la paranoia di alcuni poeti cattolici: il voler intravedere, a tutti i costi,
stratificazioni di cristianesimo. Infatti, così non è, ma riaffiora un
tema che prepotentemente lo richiama, un’assenza/presenza racchiuso in un che di
malinconico, a tratti nostalgico: l’infinito. Aria fritta la mia -si dirà-,
è nostalgia che affligge la stragrande quantità di poeti e artisti. Ma qui –
obietto io - ha come colorazioni –splendide caleidoscopiche - tutte sue, perché
pare – pare… - che nemmeno lo si cerchi quell'infinito, eppure … di lui qualcosa accade. Varrà bene una metafora su
questa poesia e il suo autore per inquadrarlo al meglio: un aquilone, vive con
pienezza il pezzo di cielo assegnatogli, fin troppo consapevole del suo guinzaglio.
È poesia che si srotola
tutta su un gioco sottile, estremamente elegante, a tratti ironico in altri
drammatico. Non c’è lirica, non un distico, che non nasca da un ampio o
minuscolo pezzo di realtà, per lo più quotidiana –la più difficile, quella fatta
di piccole cose che, se incastonate nell’arco della giornata, ti restituiscono un
senso di pienezza, quasi un premio di cui ti stupisci: non hai fatto nulla di
epocale e, forse, è proprio in ciò il tuo atto eroico: nell’averlo fronteggiato
ed essere uscito indenne da quel quotidiano e la sua morsa.
Macchie
“Non vanno via” dice “rognose
sono ostili ai detergenti
e il trattamento rovina i tessuti.
Dovrò farle il sovrapprezzo.”
“Ma è sicuro che per forza? In fondo
il colore non è dirimente
e nemmeno la posizione rafforza
l’ipotesi”. E poi non dico:
quale sarebbe stata la traiettoria
quale la tangente alla pelle nuda
in uno di quei grigi compatti del crepuscolo
quando sei così prossimo alla rivelazione?
“Dia retta: vuole mica che non sappia
riconoscere il sangue?”. Non voglio:
ma lo stesso rifiuto di accettare
la perdita meglio pensare
che i fonemi guariscano le cesure
possano sempre suturarsi
che basti una sinalefe
o dell’acqua ossigenata.
Il vuoto
Lori in giardino con la bicicletta
traccia spirali d’acqua sul selciato:
il suo gioco è la scia
che subito svanisce
è la ripetizione del miracolo.
Il mio è in questi segni
scesi a macchiare il vuoto
a violare il silenzio.
Dal verso -e non so come
faccia- cadono allusioni mediate implicite sommerse, quasi uno dei suoi carismatici
chiaroscuri che lasciano a chi li vede –in chi lo legge- il compito di trovare
i colori di cui, comunque, con un tratto, lascia tracce. Così ti ritrovi a
vagolare con lui, l’autore, e frugare tra le cose … un oltre – il margine, termine
che completa i titolo, Sergio lo conosce bene, è suo è nostro, ciò che
veramente affascina e ci tira dentro la sua poesia, è solo un modo -un fare poetico- così
particolare di raggiungere, in qualche modo, quell’oltre.
Il linguaggio di una
disarmante semplicità –prerogativa dei grandi che Raffaele Lacapria ha
magistralmente sintetizzato nella sua teoria dell’anatra- acquista piano il
timbro di una voce che il lettore riconosce subito perché intima, così familiare:
ogni lirica pare abbia la stessa intestazione e un solo destinatario: caro me...
Ma in quel “me” il Nostro riflette una strabiliante campionatura di questa
umanità. La potrei tranquillamente definire una silloge terapeutica nella
misura in cui rende solidali col resto del mondo e, con lo stesso, ti
rappacifica.
Liriche – da leggere tutte
e, poi, rileggere – che si presentano come piccole grandi e soffuse
rivelazioni. In una, È questo l’esilio (pag. 20), mi pare di intravedere,
nell’ultimo verso, la definizione di infinito:
(Ciò che possiedo è ciò
che più mi manca
ciò che ho intravisto
premere la stoffa
senza poter mai completare
il gesto).
Eppure
a me sembra che, in qualche modo, quel gesto Sergio lo completi: così calato in
una sorta di mistero caldaico, qualcosa di lui migra da un sé, che gli sta
stretto, verso un Tutto, qui ruba i suoi spunti, li impasta con la sapienza che
lo connota e ci rende più ricchi di una grande poesia.