Ho tra le mani “Riti di
seduzione”, l'ultima silloge di Ottavio Rossani, poeta calabrese ben noto al mondo
letterario contemporaneo - da anni vive a Milano, ma la sua pronuncia non ha
alcuna inflessione nordica. È anche registra teatrale, pittore, scrittore,
apprezzato critico letterario, cura per il Corriere della sera il Blog Poesia. Farei
fatica a capire quale, tra questi generi, faccia da traino se non fosse per un
mio personale postulato: non c’è Poeta che non sia poeta e … tanto altro. Non è
un voler essere di parte, ma un dato: si spiaggia alla poesia –certo, per
inclinazione congenita- ma soprattutto per quella potenza di sintesi -raggiunta
e sudata attraverso studio e letture- che aggruma la pienezza di significati e
fa la differenza col resto: Ignotamente,
dunque, te ne vai./Scoprirai maldestramente qualcosa,/qualcosa che già da
sempre era/informe e urgente nella tua mente (Lettura pag. 17).
Ma è solo questo, un addensatore di senso la
poesia? L’abilità a legare fili –lontani, nascosti, dai più impensati- e
intessere poi magici broccati?
Al di là di finalità
“squisitamente terapeutiche” – per ragioni di spazio riduco a un virgolettato
il concetto di catarsi, e che Aristotele mi perdoni- dello scrivere in
genere, scrivere di poesia è un lungo e
interminabile dialogo tra un io e un me, dove “lungo” sta per: il Poeta si vede
negli anni, il tempo forgia la sua poetica che si compatta e, a volte, raggiunge
la vetta –mi ritornano le parole di Montale “ho scritto un solo libro, di cui
prima ho dato il recto, ora do il verso”. L’ occasionalità -da cui un paio di libri di poesie- più che la
volontà di un cammino, è un capriccio che svela il bluff dietro l’angolo;
“interminabile” come interminabile -e coriaceo e sfiancante e gratificante- è
quel dialogo intessuto col proprio sé per amicarselo in qualche modo, conoscere
e riconoscere il demone che ci abita e concedergli –concederci- la tanto
agognata realizzazione dell’essere: è il concetto greco di eudaimonia,
felicità.
Questi i benefici sommari dello
scrivere di poesia, quali quelli del leggerne?
Facciamo che un libro di
poesia sia una porta appena schiusa.
Al lettore, disposto a varcarne la soglia, si
chiede la generosità di un ascolto che, pagina dopo pagina, diventa oltremodo
attivo se la poesia ha la forza di schiudere, a sua volta, altre intime porte.
Da un timido dialogo lettore/poeta, sarà talento
del primo –leggasi: esperienza, capacità di ripiegarsi su se stessi, di
accogliere, modularsi, rigenerare, rapportarsi o prendere le distanze, e così
via – e la forza poetica del secondo, a far si che due mondi si accostino si
sovrappongano o si prolunghino. Il libro di Rossani, almeno per me, non
ha attivato nessuno dei tre verbi di sopra: è stato subito un balzo in avanti.
In un verso asciutto
-oserei dire geometricamente perfetto- una poesia dalle forti intonazioni
esistenziali, ma anche poesia di pensiero, limpido rigoroso. In tutte, quei lievi,
quasi impercettibili, cedimenti dell’anima di fronte al dolore, l’incognita, la
delusione per un’illusione che si spacciava speranza: è come se da un fondale
salisse una bolla alla pelle del mare, e il sole la gratificasse concentrandovi
i suoi riflessi.
Devi domandarti
perché accadono
Rarissimi ricchi
incontri
(pelle vecchia,
pelle giovane)
Quando la fusione
dei corpi è avvenuta
Si potrebbe anche
chiarire
Dove si blocca o si
scatena la creazione,
forse si
scoprirebbe che c’è troppo dolore. (Mistero creativo, pag. 19)
Nella
lirica Peluche (pag.20) tutto si gioca su un archetipo dell’infanzia – un orsacchiotto
di peluche appunto- un filtro attraverso cui si racconta una favola bella che
ha sperato invano in un lieto fine
L’orsacchiotto
gioca anche con lei
Le
ricorda ruvida mano
Le racconta nel
sogno una favola turchina.
[…]
Il ragazzo col viso
d’uomo
Resiste all’ondata
di pianto,
sa essere cavaliere
galante
e suscitare
incanti.
L’orsacchiotto ha
camminato con loro,
narra di estasi
perdute,
di una storia
d’amore che voleva essere eterna.
Nella
poesia Promontorio (pag.22), che riporto per intero, un quotidiano che ha in sé
una gioiosa frenesia, ma un’improvvisa incrinatura lo turba – un sospetto sul corpo ingabbiato da dolore-,
da qui in poi un’altalena la speranza che cerca di avere la meglio sul
pervicace insinuarsi della tristezza. Il finale è un pastello:
Scroscia la doccia,
stride una persiana.
Un tonfo nella sala
e musica in cucina.
Nel corridoio
s’incrociano inquieti sguardi.
Il giorno è già un
fastello di rumori.
Tenero risveglio
dopo un bellissimo sogno.
L’alba rosa scivola
su un forte desiderio.
l’ira allo specchio
fronteggia il tempo.
Un sospetto sul
corpo ingabbiato da dolori.
Sorprese, gioie,
attese, delusioni, crolli.
Ma ora tutto
risplende del sole di giugno.
Nel pomeriggio
dilaga la malinconia.
A sera, si rivedono
travestiti di stanchezza.
Torneranno inverni
e altre voraci estasi.
Nell’annebbiato
promontorio di ogni mattina
continuerà negli
occhi l’incerto augurio
d’una vela sul mare
che sventolando se ne va.
Tra
le due liriche – Soverato e Milano- non saprei quale scegliere: due angoli di
visuale, due diverse visioni di uno stesso volto e un unico punto di fuga che sprigiona
armonia:
Punta di sabbia nel
mare,
frange di sole nel
golfo,
mattine paludate di
brezza,
sere incendiate di
cremisi. […]
Eppure questa
lingua di terra,
sole,sale e venti
africani,
ha grande fame
d’amore.
E ci affogo, senza
scampo.
(Soverato pag.30)
Cielo di cristallo
opaco
sui grattacieli
alteri.
fumo di pensieri
stranieri
di notte alla
Centrale.
frastuono di
ferraglia
di giorno davanti
alla Scala.[…]
Nei Giardini una
studentessa
è stuprata e
uccisa.
Porta Venezia
incornicia
una mostra di
colori umani.
È tutta una storia
vera.
Ma Milano è
un’altra cosa:
un sogno della
giovinezza
che s’è dispiegato
soltanto
nella polvere stratificata.
Come sempre,
resterà la pietra. (Milano
pag. 31).
Ci
sono poi – immancabili in ogni silloge che si rispetti- le poesie della
solitudine. Liberarsi da lei richiede un atto di coraggio per nulla scontato:
dinanzi una finestra sulla notte siamo noi a decidere se concentrare
l’attenzione su quel volto riflesso sul vetro o lanciare oltre lo sguardo, in
quel blu elettrico dove i tratti del volto si spargono si confondono e sembrano
farne parte. E fin quando rimarrà sospesa la nostra adesione, in quella densità
fitta di stelle, uno spazio vuoto continuerà ad aspettarci. Né scrivere di
poesia –mi sia concessa la digressione- equivale ad uno stadio cronico di
solitudine -il verso è sempre foriero di baccelli di realtà intorno ai quali le
nostre radici “devono” avvinghiarsi- semmai è riflesso e frutto di una buona
capacità di isolamento, tipo quella che ti fa restare agganciato a un pensiero
che, all’improvviso, si accende in un tram strapieno di gente.
Rinchiuso in questa
scatola
sono un puntino
luminoso,
tra inquiete ombre
vaganti.
Cuore generoso apri
la botola.
Uscirò come un
fulmine di vita.
[…] (Come, pag. 36).
La
silloge si compone in tre parti: Seduzioni, Cartoline, Finestre aperte. Nella
sezione Cartoline, flash chicche, la voce del verso pare un assolo accorato su
un coro che canta a bocca chiusa, altre volte è la trave, il pensiero esatto,
già soddisfatto di senso, tant’è che a lui si poggiano -e si diramano- altre
impalcature.
E
poi le poesie dell’amore perduto, dolore che il Nostro consuma fino all’ultima
goccia, non per autocommiserazione o strane forme di compiacimento, ma perché è
una strada obbligata e irta: chi vuole ritrovare la luce -che sta in vetta- non
può disdegnare la salita. Una per tutte, si intitola Dolore (pag.65)
Così forte il
dolore
che sembra festoso.
Non ho altro da
dire
amore mio fuggito.
L’arpa inventa per
me
melodie antiche.
Come galeoni
dispersi,
nei miei occhi
passano
di te movenze e
gesti
risonanti di
allegria.
Era il tuo fascino.
Ora è sortilegio.
A
questa pare fare pendant -e confermare quanto esposto prima- la lirica Percorrenza
(pag. 70) che chiude la seconda sezione, Cartoline
Per sopravvivere
nella tempesta
seguo la
traiettoria
disegnata da un
fischio
persistente e
fastidioso
Nella totale
assenza di luce.
Andrò molto lontano.
Lungo il tragitto
troverò
qualche buon
compagno.
Anche da solo
tuttavia
arriverò. Arriverò.
L’ultima
sezione, Finestre aperte, raccolgono e scandagliano attimi di passato, ora
prossimo ora lontano, col classico “senno del poi”, quello che, per ultimo,
passa ad un ulteriore crivello, con maglie ancora più strette, una traccia
della nostra storia, perché diventi pura essenza e faccia da segna passi per il futuro
Il padre s’avvide
della prima
pronuncia virile
del figlio.
fiero comunicò a
tutti la novità.
Il ragazzo scappò
via
per nascondere il
suo rossore.
pianse chiuso nel
sottoscale,
con la testa tra le
mani,
tre giorni e tre
notti.
Così si sfebbrò e
cominciò
a guardare le
ragazze.
(pag. 79).
E
veniamo al titolo, Riti di seduzione. È dalla prima pagina che mi chiedo a chi
siano rivolti questi riti; il Nostro è il soggetto attivo che li intesse, o un
soggetto passivo che inesorabilmente li subisce? Per giungere ad una
conclusione, devo fare una premessa: se dovessi raccogliere Ottavio Rossani in
un aggettivo userei il termine parresiasta e dubito sbaglierei. Il significato
di parresia si assomma genericamente in un “parlar chiaro”, ma nelle pagine che
la trattano, raramente ho trovato la sua vera e imprescindibile pregiudiziale:
quella curvatura riflessiva su se stessi –un lavoro non da poco che impone una
presa di distanza dall’emozione che, se è foriera di impulsiva sincerità, non
consente la dovuta lucidità- per raggiungere, prima di ogni cosa, la verità su
di sé. Una riflessione che sia scevra da opportunistici compromessi o eccessivi
avanzi di disincanto, solo così e a questo patto la parresia si fa pienamente virtù
– e non la solita maschera indossata dal moralista di turno. Ecco allora che la
parola premia e si fa trasparente, veicolo di sguardi trasparenti. A lei,
Ottavio Rossani, ha celebrato i suoi preziosi riti, lasciandosi sedurre dalla
parola giusta che, in un verso, colpisce e fa segno, seducendo, a sua volta,
chi la legge.