domenica 22 gennaio 2023

NOTE DI LETTURA DI PAOLO POLVANI

 

A TENTONI NEL BUIO DI PAOLO POLVANI 

RUBRICA DI VERSANTE RIPIDO, RIVISTA ON LINE


Del nuovo libro di Angela Caccia mi ha subito incuriosito il titolo: la parola alveare richiama un’idea di intensa operosità, di attività frenetica, riporta alla memoria un insistente ronzio e un traffico di voli. L’aggettivo assopito suggerisce un’atmosfera di crepuscolo, quel tempo che precede il riposo e si annuncia con un attenuarsi dei voli e dei suoni che accompagnano il tempo di lavoro delle api, uno smorzarsi delle voci, una resa al silenzio.  Ho iniziato la lettura con il desiderio di scoprire le ragioni di un titolo davvero originale e inconsueta per un libro di poesie. Accade di scoprire indizi interessanti a questo fine verso la seconda metà del libro, quando l’autrice intraprende un discorso sulla scrittura. Ecco allora che l’alveare assopito trova una sua corrispondenza con le parole in questi versi:

 

Ti direi che è facile vuotare

 le parole conoscerne il lato

 ghiacciato

 o l’alveare assopito – alcune

 a deviarne una sillaba

 tornano crepe – bisognerà

 attendere che il sole le asciughi

 scongiurare solitudini in cattività

 gli alberi in lutto ostinato e altre

 ghiottonerie del dolore – tu

 conserva sempre

 memoria del bianco

 un diario minimo del ritorno

Dunque una prima traccia, con indizi interessanti in quelle ghiottonerie del dolore, nel lutto ostinato e nelle solitudini in cattività.  Allora è il lato ghiacciato delle parole a interessare l’autrice, e l’alveare assopito, quindi la densità delle parole, la loro risonanza, la capacità di evocazione o forse di impatto sul foglio, la loro essenza in definitiva, che a me pare la forma più proficua di rapportarsi con la scrittura.  Non sono forse le parole il materiale di cui il poeta si serve? e non sono forse le parole che possono scongiurare il pericolo di una solitudine in cattività?

In una precedente poesia, distante appena poche pagine, l’autrice ci confida che non le piacerebbe nemmeno scriverne, se non fosse che – l’urgenza di parole che si / fanno giuste ma solo in / rigida successione – in certi giorni acciacca il respiro e, parrebbe di capire, rallenta l’operosa attività, si contrappone alla intensità di una vita che scorre lungo i binari consueti. Da dove nasce l’impellenza di questo bisogno, perché disporre le parole secondo una sequenza che appare l’unica giusta e che quindi placa in un certo modo la preponderanza dell’ansia? Seguono qui, come risposta, due versi davvero belli e densi e portatori di un’intensità che vibra e si trasferisce in tutta la poesia oltre che in tutto il libro, questa necessità, questo bisogno di disporre le parole nella giusta successione trova il suo fondamento dentro un’eco che ha una collocazione geografica: – inabissate in territori limacciosi o / resti di bufere accadute chissà quando -. Tutta la poesia dunque si ripercuote nei testi precedenti e in quelli successivi, e svela l’origine di quel desiderio che s’impone sullo svolgimento ordinario dei giorni e lo travolge con l’urgenza di scrivere, è qui, contenuto in questi versi:

 

 Piantato in me

 da qualche parte

 questo caos tenace

 indipendente come il mare che

 sfiata dalla conchiglia

 e in controluce

 percorsi di impronte

 

Dunque l’imperativo a scrivere nasce da questo caos tenace, che si muove in maniera autonoma, indipendente come il mare, e mi riporta i versi memorabili di Adriano Spatola: – il seme del verso alligna e matura nel caos -.   Trovo una corrispondenza tra il verbo allignare, che indica un penetrare non sempre benevolo, un radicarsi nel legno, e quei territori limacciosi, quei resti di bufere evocati nei versi evidenziati sopra, a suggerire che la poesia vanta strette parentele con territori della vita non sempre limpidi, ma anzi alligna nel caos, si nutre di complessità e confusione. Immagino che chiunque scriva, chi si cimenta con la poesia, con questa fatica di disporre le parole secondo una giusta successione, si ritrovi nel verso che allude a un caos tenace, alle complicatissime e oscure ragioni che stanno alla base dello scrivere versi, si riconosca in quei percorsi di impronte e in quelle passate bufere, riconosca che la poesia origina dalle esperienze, dalla scansione dei giorni, piuttosto che da motivazioni meramente sentimentali, che quei sentimenti cui si regala la propria voce vivono dentro fatti reali e da quelli scaturiscono. Tuttavia, sebbene siano limacciosi e a volte oscuri i territori da cui la poesia nasce, è mirabile la nitidezza che sempre l’autrice raggiunge. Per esempio il sogno di tutte le rondini, esplicitato in maniera insieme pittorica e screziata di quella ingenuità che possono permettersi i poeti.

La silloge è risultata vincitrice al concorso Faraexcelsior, indetto dalla casa editrice Fara, e in una delle motivazioni si legge: – Una silloge percorsa da una lingua poetica variegata ma solida, innestata in un solco di tradizione secondo-novecentesca che accosta, spesso in maniera del tutto riuscita, registri differenti all’interno dello stesso componimento, dove convivono in buon equilibrio altezza aulica, forme metriche tradizionali e formule colloquiali -.

La silloge è ripartita in tre tempi, o sezioni. Nella prima si disegnano panorami, si dispiegano paesaggi, e in tutti si avvertono insieme un dolore e un’attesa: – tutti e insieme portiamo l’attesa del giorno come un dolore inseparabile -, che si tratti del vento che inscena un teatro di ombre, o della campagna dove fiorirono le lucciole, o delle rose che infiammano la strada, o del congedo della rondine sulla rampa ripida dell’autunno.

Nella seconda sezione la domanda di fondo che percorre e sottende i versi è: – quale tempo / s’accorgerà che ce ne siamo andati? -, e quindi il distacco, e il ricordo di chi se n’è già andato, versi in cui compaiono il padre, – ti porto addosso / come il più bel vestito della festa -; e la madre: – lo scalpiccio di un grappolo di stelle mi porta il tuo ricordo -.

Infine nella terza parte è la “parola insonne” che si fa largo nei versi, e contiene riflessioni e direi rivelazioni interessanti: si entra indifesi nel verso, per esempio, e così tornare sul foglio è – tornare alla pena che non so dirti -; perché scrivere è un lavoro da bambini, quei bambini che odorano di saponetta e hanno i capelli pettinati ad acqua di colonia; perché scrivere è colmare un vuoto, far fronte ad una perdita, a quella orfanità che si affida al foglio come a una casa.

Insieme alla poesia altre passioni di Angela sono la ceramica e gli scacchi. La creazione plastica trae origine dallo stesso materiale informe, caotico, della poesia, asseconda un’idea, un progetto, che si definisce e si consolida con il procedere della lavorazione. Il gioco degli scacchi oltre che l’immaginazione richiede una capacità di riflessione, un piano, una strategia, un pensiero analitico. Ebbene in questo libro entrambi gli aspetti trovano conferma della loro necessità. Creazione e riflessione si sovrappongono, si inseguono, a volte si ignorano ma subito dopo si ricongiungono.

  

La rondine è viaggio

 altezze

 l’ampio i canti delle terre

 che la speziano

 le schiarite i tramonti le tempeste

 l’immacolato che la contagia

 e la chiama a tornare – io che

 conosco da sempre il sogno di tutte

 le rondini: la casa

 col tetto rosso e

 le finestre giallo sole che

 disegnano i bambini

 

*

  

Scrivere c’est un métier d’enfant*

 di quelli che odorano di saponetta

 coi capelli pettinati ad acqua di colonia

 

 L’aspetto impeccabile

 lo sguardo dimesso

traditi solo dal profumo di una orfanità che

s’affida al foglio come a una casa

 

*citazione di Christian Bobin