A TENTONI NEL BUIO DI PAOLO POLVANI
RUBRICA DI VERSANTE RIPIDO, RIVISTA ON LINE
Del nuovo libro di Angela Caccia mi ha subito incuriosito il titolo: la parola alveare richiama un’idea di intensa operosità, di attività frenetica, riporta alla memoria un insistente ronzio e un traffico di voli. L’aggettivo assopito suggerisce un’atmosfera di crepuscolo, quel tempo che precede il riposo e si annuncia con un attenuarsi dei voli e dei suoni che accompagnano il tempo di lavoro delle api, uno smorzarsi delle voci, una resa al silenzio. Ho iniziato la lettura con il desiderio di scoprire le ragioni di un titolo davvero originale e inconsueta per un libro di poesie. Accade di scoprire indizi interessanti a questo fine verso la seconda metà del libro, quando l’autrice intraprende un discorso sulla scrittura. Ecco allora che l’alveare assopito trova una sua corrispondenza con le parole in questi versi:
Ti direi che è facile vuotare
le parole conoscerne il lato
ghiacciato
o l’alveare assopito – alcune
a deviarne una sillaba
tornano crepe – bisognerà
attendere che il sole le asciughi
scongiurare solitudini in cattività
gli alberi in lutto ostinato e altre
ghiottonerie del dolore – tu
conserva sempre
memoria del bianco
un diario minimo del ritorno
Dunque una
prima traccia, con indizi interessanti in quelle ghiottonerie del dolore, nel
lutto ostinato e nelle solitudini in cattività. Allora è il lato
ghiacciato delle parole a interessare l’autrice, e l’alveare assopito, quindi
la densità delle parole, la loro risonanza, la capacità di evocazione o forse
di impatto sul foglio, la loro essenza in definitiva, che a me pare la forma
più proficua di rapportarsi con la scrittura. Non sono forse le parole il
materiale di cui il poeta si serve? e non sono forse le parole che possono
scongiurare il pericolo di una solitudine in cattività?
In una
precedente poesia, distante appena poche pagine, l’autrice ci confida che non
le piacerebbe nemmeno scriverne, se non fosse che – l’urgenza di parole che si
/ fanno giuste ma solo in / rigida successione – in certi giorni acciacca il
respiro e, parrebbe di capire, rallenta l’operosa attività, si contrappone alla
intensità di una vita che scorre lungo i binari consueti. Da dove nasce
l’impellenza di questo bisogno, perché disporre le parole secondo una sequenza
che appare l’unica giusta e che quindi placa in un certo modo la preponderanza
dell’ansia? Seguono qui, come risposta, due versi davvero belli e densi e
portatori di un’intensità che vibra e si trasferisce in tutta la poesia oltre
che in tutto il libro, questa necessità, questo bisogno di disporre le parole
nella giusta successione trova il suo fondamento dentro un’eco che ha una
collocazione geografica: – inabissate in territori limacciosi o / resti di
bufere accadute chissà quando -. Tutta la poesia dunque si ripercuote nei testi
precedenti e in quelli successivi, e svela l’origine di quel desiderio che
s’impone sullo svolgimento ordinario dei giorni e lo travolge con l’urgenza di
scrivere, è qui, contenuto in questi versi:
Piantato in me
da qualche parte
questo caos tenace
indipendente come il mare che
sfiata dalla conchiglia
e in controluce
percorsi di impronte
Dunque
l’imperativo a scrivere nasce da questo caos tenace, che si muove in maniera
autonoma, indipendente come il mare, e mi riporta i versi memorabili di Adriano
Spatola: – il seme del verso alligna e matura nel caos -. Trovo una
corrispondenza tra il verbo allignare, che indica un penetrare non sempre
benevolo, un radicarsi nel legno, e quei territori limacciosi, quei resti di
bufere evocati nei versi evidenziati sopra, a suggerire che la poesia vanta
strette parentele con territori della vita non sempre limpidi, ma anzi alligna
nel caos, si nutre di complessità e confusione. Immagino che chiunque scriva,
chi si cimenta con la poesia, con questa fatica di disporre le parole secondo
una giusta successione, si ritrovi nel verso che allude a un caos tenace, alle
complicatissime e oscure ragioni che stanno alla base dello scrivere versi, si
riconosca in quei percorsi di impronte e in quelle passate bufere, riconosca
che la poesia origina dalle esperienze, dalla scansione dei giorni, piuttosto
che da motivazioni meramente sentimentali, che quei sentimenti cui si regala la
propria voce vivono dentro fatti reali e da quelli scaturiscono. Tuttavia,
sebbene siano limacciosi e a volte oscuri i territori da cui la poesia nasce, è
mirabile la nitidezza che sempre l’autrice raggiunge. Per esempio il sogno di
tutte le rondini, esplicitato in maniera insieme pittorica e screziata di
quella ingenuità che possono permettersi i poeti.
La silloge
è risultata vincitrice al concorso Faraexcelsior, indetto dalla casa editrice Fara,
e in una delle motivazioni si legge: – Una silloge percorsa da una lingua
poetica variegata ma solida, innestata in un solco di tradizione
secondo-novecentesca che accosta, spesso in maniera del tutto riuscita,
registri differenti all’interno dello stesso componimento, dove convivono in
buon equilibrio altezza aulica, forme metriche tradizionali e formule
colloquiali -.
La silloge
è ripartita in tre tempi, o sezioni. Nella prima si disegnano panorami, si
dispiegano paesaggi, e in tutti si avvertono insieme un dolore e un’attesa: –
tutti e insieme portiamo l’attesa del giorno come un dolore inseparabile -, che
si tratti del vento che inscena un teatro di ombre, o della campagna dove
fiorirono le lucciole, o delle rose che infiammano la strada, o del congedo
della rondine sulla rampa ripida dell’autunno.
Nella
seconda sezione la domanda di fondo che percorre e sottende i versi è: – quale
tempo / s’accorgerà che ce ne siamo andati? -, e quindi il distacco, e il
ricordo di chi se n’è già andato, versi in cui compaiono il padre, – ti porto
addosso / come il più bel vestito della festa -; e la madre: – lo scalpiccio di
un grappolo di stelle mi porta il tuo ricordo -.
Infine
nella terza parte è la “parola insonne” che si fa largo nei versi, e contiene
riflessioni e direi rivelazioni interessanti: si entra indifesi nel verso, per
esempio, e così tornare sul foglio è – tornare alla pena che non so dirti -;
perché scrivere è un lavoro da bambini, quei bambini che odorano di saponetta e
hanno i capelli pettinati ad acqua di colonia; perché scrivere è colmare un
vuoto, far fronte ad una perdita, a quella orfanità che si affida al foglio
come a una casa.
Insieme
alla poesia altre passioni di Angela sono la ceramica e gli scacchi. La
creazione plastica trae origine dallo stesso materiale informe, caotico, della
poesia, asseconda un’idea, un progetto, che si definisce e si consolida con il
procedere della lavorazione. Il gioco degli scacchi oltre che l’immaginazione
richiede una capacità di riflessione, un piano, una strategia, un pensiero
analitico. Ebbene in questo libro entrambi gli aspetti trovano conferma della
loro necessità. Creazione e riflessione si sovrappongono, si inseguono, a volte
si ignorano ma subito dopo si ricongiungono.
La rondine è viaggio
altezze
l’ampio i canti delle terre
che la speziano
le schiarite i tramonti le tempeste
l’immacolato che la contagia
e la chiama a tornare – io che
conosco da sempre il sogno di tutte
le rondini: la casa
col tetto rosso e
le finestre giallo sole che
disegnano i bambini
*
Scrivere c’est un métier d’enfant*
di quelli che odorano di saponetta
coi capelli pettinati ad acqua di
colonia
L’aspetto impeccabile
lo sguardo dimesso
traditi solo dal profumo di una orfanità che
s’affida al foglio come a una casa
*citazione di Christian Bobin