venerdì 17 aprile 2020

A una domanda grande, il tentativo di una risposta



Vorrei, nel mio piccolo, confrontarmi con lo scritto del filosofo Giorgio Agamben.

Così, a fronte del testo di Tucidite con cui inizia il suo articolo, vorrei proporre due personaggi tratti da I Promessi sposi di Alessandro Manzoni.
Dal raffronto di queste due figure – Don Rodrigo ripiegato sul suo terrore della morte e Padre Cristoforo a cui addolora la sofferenza e la morte dell’altro, più che della sua - all'incredulità insita nella domanda del Filosofo: Com'è potuto avvenire che un intero paese sia, senza accorgersene, eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?
E mi chiedo, di quale crollo stiamo parlando che non fosse già insito nel vivere quotidiano? Chi -e lo sottolineo, CHI- di fronte una pandemia ha riscoperto i tanti don Rodrigo che sciacallano allegramente ad ogni succulenta occasione e, di rimando, i tanti Padre Cristoforo che ci rimettono le penne perché incapaci di non tendere la mano al prossimo?

Tento una risposta: tutti quelli che non hanno saputo vedere che “la soglia che separa l’umanità dalla barbarie è stata oltrepassata”. E la si continua ad oltrepassare ogni volta che una mano violenta si alza contro una donna, quando un soldato punta l’arma su un suo simile, quando si dà alla propria paura il volto dello straniero.
La si oltrepassa quando non ci si rende conto che se io sto benissimo e tu malissimo, domani nessuno dei due starà bene! 
Il segno di demarcazione tra la realtà di sempre e quella di oggi?... Oggi, più che mai, le parole non bastano, non servono. Tant'è che sono le stesse che, quasi, si vergognano di esistere e vorrebbero mettersi da parte perché, non loro, ma l’agire concreto sta raccontando nelle viscere questo tempo.

E aggiungo -giusto per replicare al filosofo che colpevolizza “un Papa che si chiama Francesco” di non aver abbracciato i lebbrosi come fece il suo omonimo Santo – anche Padre Cristoforo avrebbe indossato -avendole- mascherine e tuta e visiera e guanti, pur di restare in vita e poter salvare un lebbroso in più. 
Io, universitaria, ricordo ancora una signora molto distinta, vedova con 4 figli tutti in tenera età, che raccontava a mia madre " Signora Giuliana, la bistecca più grossa la mangio io non la do ai miei figli, perché devo stare bene per prima io se voglio accudirli".

Vorrei soffermarmi sul primo punto dello scritto in questione che pone un interrogativo tanto umano quanto sconcertante ma che, forse, ha in sé anche la risposta. Il cenno ad Antigone torna a contrapporre la Legge della città alla Legge del cuore: Antigone contravviene alla prima, disobbedendo allo zio materno Creonte, e seppellisce lei stessa il fratello. L’aberrante oggi, a detta del filosofo, sta nel non aver seguito le orme di Antigone: come si è potuto accettare che le persone che ci sono care non soltanto morissero da soli, ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale. E tutto “in nome di un rischio che non era possibile precisare”. Ma avverto una contraddizione in termini: se un rischio si potesse precisare, non sarebbe più un rischio. Treccani definisce rischio “Eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili (è quindi più tenue e meno certo che pericolo)”. E senza voler scivolare in arzigogoli letterari, dico subito che, se la circostanza più o meno prevedibile era l’assistenza al moribondo o lo svolgimento di una sola funzione funebre, il danno ipotetico e connesso sarebbe stato quello di creare migliaia e migliaia di contagiati e morti in più.
Chi si assume il compito di decidere quale delle due possibilità -astenersi o attivarsi nel conforto agli agonizzanti e con funzioni sacre ai deceduti-, sarebbe stata la crudeltà meno crudele?

Il filosofo scrive: Abbiamo conseguentemente accettato, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio.
Anche il secondo punto, secondo me, ha in sé la risposta, basterà spostare il punto di visuale: se io, come te, siamo possibili fonti di contagio, accetto di stare e tenerti a distanza in nome della nostra amicizia e del nostro amore. E chi è solito far parlare il suo affetto anche attraverso un abbraccio un bacio una pacca, sa quanto sacrificio c’è in quella precauzione. Lo sa una madre quando blocca bruscamente il figlio che vorrebbe avvolgerla tra le braccia e, di colpo, lei si ritrae, gli mostra le spalle -e, nel contempo, gli nasconde il volto e gli occhi e tutta la frustrazione di quel suo negarsi.

Riguardo il terzo punto rimando a quanto già detto prima: potendo, non credo che Padre Cristoforo avrebbe rinunciato, per sé o per l’altro, a sottoporsi a specifici macchinari e, quindi, ad uno stato vegetativo che avrebbe consentito, da lì a poco, la possibilità di riunire l’anima al corpo e continuare a fare del bene.

E qui allento la presa per abbozzare una chiusa. La allento perché non c’è nessuno scritto a riguardo – compreso il mio- che possa vantare la piena ragione, soprattutto a fronte di altre e più vere urgenze. La allento perché dovrei contrastare astrattezza con altra astrattezza e, così, sacrificare quel minuscolo e quotidiano mio fare, come preparare il pranzo o riassettare casa, preoccuparmi comunque di altro e per altri. Un minuscolo fare che tento -io come tanti e tanti e tanti - di allargare oltre i componenti della mia famiglia per sentirmi vitale e utile – e quindi viva e partecipe - in questa morsa di dolore che sta attanagliando il mondo, che non lascia nemmeno la possibilità di piangere i propri morti tanta è l’urgenza di poter/dover continuare a vivere - il resto, almeno al momento, la sento fuffa.