giovedì 19 settembre 2019

Camminamento n. 10 - Cristiano Poletti


CAMMINAMENTI

trincee o scavi, comunicazioni tra opere
fortificate e le immediate retrovie (… praticamente Poeti)


Camminamento n. 10 - Cristiano Poletti


Nelle tue mani consegno il mio spirito,
endecasillabo
di chi ha sentito
un giorno venirgli al naso un odore
di ansia, era amore

Pochi versi e fulminano.  Mi sono chiesta di chi fossero, dato che la casa editrice era già una garanzia.  Per certo - detto tra me - deve essere uno di quei poeti che le parole le pesano a grammi e il verso, pensiero tensione canto che sia, è anche una questione di millimetri; per certo, detto sempre tra me, se non è già alto, è nome destinato a vette.
Poesia schiva discreta e, non per questo, meno assertiva: il verso è nitido, ora una fiammata, ora  un corso d’acqua lento coriaceo che nulla distoglie, fosse uno specchio, restituirebbe l’immagine di due mani a nido, una poesia che, in qualche modo, si prende cura della vita.
Così come Poeta è la devozione di attimi, un brillare della propria solitudine nella coscienza di non voler restare soli: all'apparenza, due rette parallele che un improvviso interseca e aggancia il tratto: mi resta questo bagliore di Cristiano Poletti.

A domanda, ha risposto ...
*
Per Fernando Pessoa la poesia è un pensiero che sente e un sentimento che pensa; nel saggio di Paul Valéry Poesia e pensiero astratto, si legge lo stato della poesia è del tutto irregolare, incostante e fragile […] lo perdiamo, così come lo troviamo, per caso, come se l'io poetico fosse qualcosa che è in noi, ma nel contempo è altro da noi? 

Per rispondere, isolerei intanto nella domanda «la poesia è un pensiero», segmento al quale verrebbe voglia anche di togliere l’articolo. Sì, ecco: la poesia è pensiero, partirei da qui.
Aggiungerei che il pensiero risente del sentimento di chi lo pensa. Io guardo al sentimento come a quell'energia che porta la persona, ciascuno, tutti, al senso (di sé, del mondo, nell'incontro di cose ed esseri). Ma come lo fa? Nascendo appunto dalla persona, mescolandosi al carattere, e così si “va a naso”, si fiuta per sentimento, ci si muove d’istinto.
E poi, come dire, dal fiuto al fiato il passo è breve. Proprio lì nasce il pensiero, nel passaggio dall’intuito al respiro, che ritengo essere il termine essenziale per la poesia: il respiro, il ritmo che è dentro la voce e la muove.  
Dicevo, “l’incontro di cose ed esseri”. C’è una definizione, tra le tante possibili (o impossibili) della poesia, che amo molto. È di Yves Bonnefoy, che dice: «La poesia? È semplicemente il bisogno che abbiamo di incontrare le cose e gli esseri del nostro mondo ordinario, l’unico che esista, in maniera più immediata e piena di quanto permetta l’esercizio del pensiero concettuale». Allora sì, la mia scorciatoia iniziale deve chinarsi al fatto che Pessoa ha ragione, davvero «la poesia è un pensiero che sente e un sentimento che pensa».
Quanto a Valery e all’io poetico, direi questo: amo moltissimo e da molto tempo un verso di Mario Benedetti, estratto dalla poesia che apre Umana gloria: «Qui ho lo sguardo che ama qualunque viso». Lo trovo straordinario, perché indica la necessità di un luogo insieme alla presenza dell’io (qui, qui io ho) come premessa necessaria perché lo sguardo possa esercitare un’apertura. È un’apertura che avviene perché c’è abbandono, perché l’io si lasci abitare da “qualunque viso”: è questo lo studio, la visione, è un atto d’amore. 
E poi c’è il caso, certo. Questo atto d’amore, questo “sentimento pensante”, pendola dentro e fuori il destino secondo l’offerta del caso. In proposito, restano a mio avviso valide, centratissime, le parole di Vittorio Sereni in un suo intervento datato 1980: «Stento a chiamare lavoro vero e proprio quella serie di operazioni microscopiche e silenziose che uno compie dialogando con se stesso, in ciò favorito dal caso, stimolato da un incontro fortuito, da un volto, da un gesto, da un suono, da una rivelazione improvvisa che muova da un oggetto magari passato inosservato in precedenza, e perché no? da una lettura (di una riga piuttosto che di un capitolo, di una pagina aperta a caso piuttosto che di un libro intero)».

*
Leggo e mi sento liberato. Acquisisco oggettività. Cesso di essere io e disperso. […] Leggo come chi abdica. 
Da Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa.
Non pensi che le stesse sensazioni abitino anche chi scrive, e scrive poesia?

Sì, si tratta della risorsa e allo stesso tempo della difficoltà che riguardano la lettura soprattutto. Difficile perché la disponibilità a uscire dalla soggettività non sempre si dà. E la lettura, poi, è a sua volta una risorsa fondamentale per la scrittura, anche per la poesia. Leggere è affondare trovandosi in una “solitudine popolata”. Splendide pagine in proposito sono quelle di Proust: ci dice di una forma di amicizia serena, di piena apertura alla confidenza. L’io si disperde? O anche solo si confonde, e se non proprio di abdicazione potremmo credo parlare ancora una volta di abbandono, del lasciarsi, almeno in parte. Nella lettura come nella scrittura: se la lettura è affondare, forse si scrive per riemergere. E il verso è esattamente la misura dettata dal respiro per risalire.

*
Da un articolo di Gabriella Musetti

Mi ha sempre colpito una frase di Sylvia Plath, poeta “confessionale” per eccellenza, tratta dai Diari, in cui, dopo aver ricordato che la scrittura è simile a un rito religioso la connota come una "rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere”Mi colpisce la grande apertura di questa osservazione, in cui si legge tutta la difficoltà a coltivare rapporti confortevoli e tuttavia il desiderio forte di dare forma, attraverso la scrittura, a un riamore  per gli altri e per il mondo, non solo nella loro evidenza presente, ma nelle loro non ancora incarnate possibilità. 

È nella scelta di uscire da sé e andare nel mondo il vero – l’unico? - motivo che spinge a scrivere poesie ?

Prima di tutto mi attrae molto il termine “religioso”, non tanto nel senso del rito richiamato da Plath ma proprio delle sue radici etimologiche: il termine religione, infatti, da re-légere significa “scegliere”, “guardare con attenzione”, “aver cura”, mentre da re-ligàre significa “unire insieme”. Credo che la scrittura possa unire oscurità di linguaggio e apertura al mondo: quindi uscire da sé è necessario, per entrare nel campo abissale del linguaggio, come è necessario “andare nel mondo”. C’è un bellissimo passaggio nel ritratto filmico realizzato da Mazzacurati su Zanzotto, in cui il poeta dice (vado a memoria) che la poesia è un po’ come una lettera inviata al mondo, in cerca di destinatari, ma che potrebbe anche tornare al mittente. Mi è molto cara questa idea, perché – rispondendo così alla domanda – dichiara che andare per il mondo, che scrivere poesia, significa non solo uscire da sé ma soprattutto direi avere del mondo una visione, ossia stringersi intorno a un immaginario. Sarebbe altrimenti impossibile inviare una simile lettera. E poi i motivi che spingono a scrivere poesia possono essere diversi altri, possono essere molti; una forma di ossessione verso il linguaggio, ad esempio, ed è una fortuna. Per me è anche una forma di preghiera.

*
Eppure I poeti sono considerati da molti santi a metà: con la spiritualità più fine e la coscienza più fiacca. Nel poeta, il più grande, l’esperienza poetica non si fa preghiera anche se tende a diventarlo; al contrario, chi legge quella poesia, “prega” senza difficoltà e proprio per merito del poeta. Infatti, si evidenzia spesso la natura paradossale della poesia: è una preghiera che non prega ma che fa pregare.
(stralcio di un articolo di anni fa)
Se così fosse, l’immagine del poeta non sarebbe granché edificante, non credi? …

È molto difficile e bello rispondere a questa domanda, perché il nodo è complesso e stimolante.
Vorrei dire subito, intanto, che proprio non vedo alcuna santità, nemmeno “a metà”, per i poeti. Il poeta è un essere tra gli altri, tra i tanti, umano tra gli umani e cittadino tra i cittadini. Davvero, non vedo “specialità”, eccezionalità che lo riguardi. Quel che conta è l’arte, questo sì, e mi sembra che il passaggio citato “è una preghiera che non prega ma che fa pregare” punti a esaltare questo, l’arte, con le sue aporie, i suoi paradossi.
Tutte le possibilità edificanti, in effetti, risiedono nel testo e non nella persona che l’ha scritto (il quale vive la propria vita come tutti dentro il “grande campo dei tradimenti”).
Autore deriva da augĕo - augēre: ecco, il merito dell’autore è essenzialmente, forse esclusivamente, nel “far crescere” attraverso il testo un motivo, una visione, un pensiero messo in forma mediante l’arte, appunto. Il resto, l’interpretazione, la lettura profonda del testo con tutto ciò che può sprigionare, fino a poter essere edificante, è a disposizione del lettore (quasi si trattasse di sua “invenzione”: la poesia è scritta, depositata/deposta sulla pagina, il libro è finito, e tocca a quel punto al lettore). Quindi, è il lettore a dare “compimento” al testo, a una poesia.

Bio bibliografia


Cristiano Poletti (Treviglio, 1976) è autore di Porta a ognuno (L’arcolaio, 2012); del saggio Trovandomi in inviti superflui, in L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2012), delle prose critiche raccolte in dei poeti (Carteggi Letterari, 2019), del libro-cofanetto Libellula gentile, con l’omonimo documentario di Francesco Ferri dedicato al lavoro di Fabio Pusterla (Marcos y Marcos, 2019), di Temporali (collana Le Ali, Marcos y Marcos, 2019). Dal 2007 al 2017 ha diretto Trevigliopoesia, festival di poesia e videopoesia. Dal 2013 è redattore del lit-blog Poetarum Silva. Lavora all’Università di Bergamo.

Testi 

Da Temporali, Marcos y Marcos, 2019



Per una donna mite


Scivola all’infinito presente
una malattia. Scriverne?
Niente carta, alle labbra, al loro confine
serve fermarsi, a un vero silenzio
negli occhi. Sì, siate
gentili, capaci.
Capaci di. Gentili con.
Avere vuoti, gli occhi,
con lei che va e si perde come noi in noi
l’indirizzo di sempre, l’afa, l’Adda
dentro la veste e il letto, tutto bianco.
O che sia invece l’ultima neve o nebbia antica,
la malattia è un viaggio
costoso. Sorridi,
eredita la terra.





Semplice


Tu sarai all’ombra di un suicidio
e io forse avrò amato, alla fine.

Terra, sventura.
Spiraglio.

Risaliremo il destino
tra la tomba degli angeli
e quella degli uomini.

Sono uguali inchiostri i nostri
debiti d’amore.




 Neve (per una fotografia di Richards)


Dormono secoli di appunti
sotto la neve. Lì
non c’è più nessuno, solo frammenti,
affanni di un passato.

È una casa, vedete,
e al centro c’è una vita resistita nel suo darsi.

Pastorale del freddo, case, case
abbandonate.

Ogni cosa per vocazione preme in una voce,
sembra dire: è occulto il fine.

Era questo, vedere. Giusto qui
al mondo, fatti eterni gli occhi e noi.





Fine partita
  

Una bandiera lasciata sul campo,
abbandonata, a fine partita.
Il tifoso l’avrà dimenticata
in un eccesso di tristezza, o di gioia.

Nell'episodio pensavo a me
come oggetto smarrito della storia.

O forse è un’altra la metafora che occorre
per la stessa ragione, o religione,
ma in un ritmo diverso:
le infinite vasche
che ora nuoto e vuoto
polmoni e tossisco
sotto sopra avanti
indietro tossisco
la mia storia e tutta
la vita immortale.




  
Decalogo sei


Decalogo sei
mondo in errore
e passato.

Passate
nell'avere amato mai e sempre
voi che siete dieci
piegate
dita, un tamburellare di continuo
avete già fatto
sul tavolo, lucido.

C’è un altro posto per questo.
Sono anni, spiegatevi,
avete e avete avuto
con voi per perdere le rose
e i notturni. Sistemate
tutti
gli inversi, anni, anni
dentro sparse ore e spessore dell’aria.

Su,
benedetti, benedite
cosa aspettate
la mano con la mano.





Per fede


Prima di te e di me.
Fu lo stesso
tra passione e croce: dirci
trasformatevi, forza, continuate,
continua a riformarsi il grande
sapere, sentire nei nervi
che è bene cadere,
che il chiodo è fisso al muro della vita.

Ed è qui,
è anche questo,
fin qui si sale.

L’uomo è in queste stazioni
l’immagine di Dio, che cade
dentro i corpi, le orografie, i mondi,
le rappresentazioni.