Già il titolo ha valore tecnematico ed attiva
un'operazione di poesia (Op) a dir poco grandiosa: quella di spalancare nella
mente – come osserva la prefatrice Argentino – la figura poderosa di Omero, il
poeta cieco nel cui canto si trasfuse, non l'universo di fuori, ma quello
concresciuto dentro lui, nel suo buio interiore, ed essendo dunque solo
alimentato dallo spirito, era sempre in via di schiudersi in nuove prospezioni,
in un progressivo attingimento della verità dell'essere, senza devianti
inframmettenze del mondo esterno: ma fuor di contesto, in un lampo la poesia
mostra cosa resti del mondo oggettivato nel comune sguardo, con i cantori tutti
accecati... un silenzio vuoto, una morte vacua, senza neanche i morti: erompe
dentro noi il nulla della fine, senza neanche un'illusione, una speranza. Ma al
risuonare della sua voce vi si soffonde un germinio, una nascenza altra in quel
nulla originatosi, quella di un mondo nuovo, cui non è possibile assimilare
altro sguardo, se non quello, interiore, dei poeti.
Ne dà conferma la premessa a pag. 10, con la
celebrazione dell'umano progredire verso mondi sempre nuovi di sapienza e
umanità, e sono i poeti, più dei ricercatori fisici e sapienziali, a
provvedervi, sono essi che aprono cammini nuovi, lasciandovi la loro orma, e
così assicurandosi un posto luminoso nella memoria universale[1].
Ma
ciò è possibile solo se il poeta abbandona le parole già dette e vada oltre ciò
che ha appreso, spogliandosene, come di cosa via via divenuta sterile, e perciò
da rimuovere, fino a disimparare a scrivere, per poi “frugare oltre”, ma dove,
fin dove?
Tutto ciò a p.13 è però sorpreso dall'avvento del
nulla. Ma di che il nulla? Del poeta –
eravamo già a dire – è lui a farsi nulla, e il mondo dentro lui. Non il
mondo fuori, ma il mondo dentro, in
interiore homine: mondo che poi è quell'oltre nel quale il poeta è
esortato a frugare (ma è anche un “frugarsi negli occhi/ le stesse pianure”, si
legge a p. 64) e che reca in seno anche
ciò che è trascorso, quel “morire più volte”, che è appunto un farsi nulla più
volte nella tradizione culturale. S'intende che proprio in quanto momento del
nulla, questo è anche momento di grazia, come fu di tutti i poeti grandi che
volta a volta han sommosso la poesia e, nella poesia, il mondo dentro loro,
onde ha nascimento stesso il mondo fuori. E in ciò i grandi poeti – ed essi
soltanto – si son superati tra loro, l'uno dall'altro imparando a farsi nulla
ogni volta.
Ma non con la morte. Con la poesia. La Caccia vi alita dentro qualcosa che ha a che fare
con l'amore: come l'amore, che “più si nasconde alla pelle/ più si alimenta da
sé”, così la poesia più si ammodella al silenzio, più si ricopre d'un disteso
germinio, onde nascon cose come metamorfosi, resurrezioni, nostalgie colme di
bellezza, crescita di numero e praticabilità di strade... Ed anche... come
“aghi” o “pulviscoli di luce” che penetrino in stanze chiuse a ravvivarle, così
la poesia slampa dentro noi e vi attenua il sentore del male e della morte. Ma
è sempre, il suo, un accadere fortuito, come l'andare dei “pulviscoli”, che
eccoli meravigliati d'esser lì a dilagare dal nulla, quasi per un improvviso
arresto nell'aritmia del tutto (“come d'un cuore che non completa il battito”).
E il mondo di fuori? Forse che i poeti hanno esito
soltanto dentro noi (p. 14) senza che se n'abbia nulla in quell'altro, che
continua stolido ad avverarsi tra il sì e il no e tra il forse e il certo? No.
I poeti sono esseri apposti “nei crocicchi”, nei punti – vale a dire – di
svolta, a mandar lampi di luce e buio, ché tale è il potere loro da far notte e
giorno. Ma più fan giorno, ché la stessa notte loro “ha le mani già piene
d'alba”.
Ma il lettore non pensi che sia, questa, una esaustiva definizione del
genere poesia. Pare che qualunque cosa se ne dica, essa serbi sempre in sé un
mistero... Sarà così...Benché insista dentro noi l'idea che essa è qualcosa che
esiste, e tutto ciò che esiste, proprio in quanto esiste, è in sé definita e
risolta nel suo quid e nel suo cur, nel suo come e quando, altrimenti non
potrebbe neanche esistere. E perciò anche della poesia, come di cosa esistente,
una definizione ci dev'essere. C'è. Bisogna avervi fede. Se la si cerca con
fede la si trova. “Avrà un senso?” si
domanda la poeta... e non s'avvede che, lei dicendolo, già la poesia ne induce
qualcuno, dei suoi sensi o compiti o fini... per esempio, quello d'insegnare ad
andar su per le ragioni della terra e del cielo (“per campi e per stelle”), a
fronteggiare il male senza precipitarvi dentro (“fiancheggiare i dirupi”), ad
esser lieti anche nel poco o nell'estrema indigenza (“danzare in un fiotto di
sole/ tra le pozze di pioggia”)...(p.14).
… O serve a dare idea dell'uomo (p. 15) come d'uno
che, lasciato solo, in abbandono, su quel trespolo del pianeta terra così
instabile e periglioso, a mo' di girasole “sterza ogni luce” verso l'alto,
nobilitando, vale a dire, e spiritualizzando ogni cosa, pur se già bella in sé.
E sebbene, come un verso “tra due a capo”, resti a pencolare “tra due solitudini”,
quella del nulla originario e quella del nulla finale, ha pure la fortuna, in
grazia di poesia, d'imparare (p.16) a veder le cose oltre la loro povertà
essenziale, con la nostalgia di sublimi altitudini, di cui è esempio la sublime
munificenza del Christòs, che
offrì in sacrificio la sua carne per redimere l'umanità, come il pellicano se
la dilania dal petto per nutrire i suoi piccoli [2].
Ché è miserevole limitarsi a veder la rosa solo come una cosa bella (p.16). Ci
si fa miseri, come nel far male, abbuiati o meno che si sia nel castigo, e
tutto senza che si spenga nondimeno quella nostalgia di altezze ideali.
Nostalgia che è pari ad una religione, quella di chi si considera venuto di
lassù, e lassù desidera tornare. Ma già qui in terra, con un poco appena di
questa religione le cose si trascendono e ci si erge a contemplare là in alto
il “pezzo di cielo” (p. 34) che ci è dato in sorte, quello che è “il mio cielo
per sempre” (p.62).
Ma ciò comporta che ci si spogli. Di che, della
terrestrità? (p.17) No? E di che? Di ciò che non si è e che si crede d'essere.
Il poeta infatti si denuda e si svela simile al suo simile, della stessa sua
natura (p.39), che è terrestre, nella quale si trasfonde, e di giù in giù
magari, fino a diventare albero, o seme, o terra.
Può anche succedere che (p.18) allo schiudersi di
ricordi, la poesia apra la nostra anima come una stanza chiusa ad un orama che
s'imbratti di cielo. E così fa l'arte, qualsisia (p.19), la pittura per
esempio, come in Van Gogh, che urla sulla tela tempeste e vento, voci di cielo
e di terra.
Il procedimento operazionale proprio della poesia, come è proprio anche
della funzione artistica in generale[3],
prosegue di pagina in pagina sino alla fine, declinato in ogni forma
tecnematica e in ogni esito operazionale. Ma se in queste liriche è mostrato in
atto, appare addirittura enunciato come
principio generale alla pag. 32:
La poesia
sta dietro
in agguato
tira su
capanne
in cui le
sillabe s’accalcano
è nello
spazio vuoto la rivelazione...
…. la
poesia non è mai nella parola o nel segno dell'artista, ma dietro, “in
agguato”, cioè a sorprenderti sempre, perché nuova ogni volta, lasciandosi alle
spalle tutte le forme trascorse nell'andare storico. In quel dietro “tira su
capanne”, provvisorie dimore di sensi e
di mondi, o di frantumi di mondi, come, nel discorso referenziale in cui essa
coagula, sono ombre, luci, allusioni, storie, figure, tropi, e quant'altro di
simile sappia inventarsi l'artista. Dimore provvisorie in quanto subito, o
addirittura in contempo, l'operare della poesia immedesima quel senso nel suo
essere proprio, volta a volta consistente di una illusione, d'un sogno, d'una
emozione o memoria o fantasia o amore... ed anche odio, timore, paura... e
quant'altro di simile a cui, nel suo stato di grazia, il poeta sappia
innalzarsi. In quel dietro – che è uno spazio sì creato da lui, ma non da
entrarvi lui – solo la poesia entra e vi compie le sue operazioni. Se vi
s'intrude il poeta, dice cose che sanno di sempre e perciò sterili, prive
d'ogni lena creativa. In quel dietro invece la poesia compie il miracolo d'una
continua creazione o ri-creazione anche di sé, avverando sempre di nuovo il
poeta nel mondo e il mondo nel poeta, senza più odore di stantio:
ha un
paesaggio identico al tuo
il verso
letto che si dipana inclemente
meravigliosamente
a
prolungarti il paese di altri tetti
strade
panchine viali
di alberi
alti e canterini di passeri
a volte è
un oceano
– s’accende
una grazia – e non senti più
il suono
ottuso di onde che corrono
singolarmente
fino a
spaccarsi a riva
... solo note
da parte a parte
solo il rumore del mare
musica dunque, “tutto da una musica nel cuore” (p.
50), “rigagnoli musicali”, ove si discioglie e si rinchiude a volte quel...
(linguaggio
senza tregua
incomprensibile
che tu
tradisci con le parole)
Domenico Alvino
[1] «Sono i sognatori che realizzano il mondo nei loro
desideri» ha scritto il
mio carissimo amico Ferdinando Falco, poeta grandissimo, or ora scomparso.
[2] Cfr. Dante, Paradiso,
112-114, parlando di Giovanni: “Questi è colui che giacque sopra il petto / del
nostro pellicano, e questi fue / d'in su la croce al grande offizio eletto”.
[3] Poesia < poievw: lavoro, foggio, formo, fo
con arte, creo, produco, fo, do l'essere.