Nel 2017 Angela Caccia, poetessa di Crotone,
la cui produzione lirica ha avuto fin dagli esordi apprezzamenti e
riconoscimenti, che sono andati crescendo negli anni, ha pubblicato due nuove
sillogi che confermano il consolidarsi della sua linea poetica in un
originale itinerario di sicura efficacia espressiva.
Nella prima silloge (Piccoli forse,
LietoColle) a dominare è un linguaggio che si articola in un intessersi serrato
di immagini sospese tra realtà e immaginazione in cui il surrealismo apre squarci
di significato nella pregnanza di un’espressione fortemente soggettiva. La voce poetante è intensamente concentrata
su se stessa nella decifrazione di un mondo interiore che nel configurarsi
poetico assume la consistenza di un’astrattezza pittorica, innervata da domande
e riflessioni sull’esistenza. Si susseguono sensazioni forti («il cielo brucia
più forte dell’inferno», p. 16), di fronte a cui si leva l’interrogativo della
poetessa («non chiedermi il perché / di questi adombramenti», p. 16) che, mossa da uno dei piccoli forse che ci portano
a scandagliare il nostro esistere, si confronta con la parola “morte”, sottolineandone la natura
intrinseca di limite ontologico dell’esistenza umana («si scivola lenti e tutti
/ ad una morte sempre più anonima», p. 53), di fronte a cui occorre mantenere
stoica determinazione («serbammo / solo un fondo di pietà, e ci bastò / per
morire da uomini», p. 54). Nonostante questa percezione, l’orizzonte della vita
si dilata in ampiezze sconfinate di orizzonti, di sensazioni, di legami
affettivi, di memorie, di rimpianti, ma anche di speranze. A tenere insieme tutto, eliminando i forse, sono prevalentemente gli affetti,
gli abbracci («(non vi furono altre braccia che mi resero / mai così densamente
regina)», la parola “mamma”, l’amore soprattutto («non tu ma il mio amarti / portò alla luce il
meglio di me», p. 26), i legami familiari («è nei tuoi occhi che vado / oltre
la mia morte», p. 28; «la mia vita per la tua vita nascente», p. 29; e sarò io domani a doverti, p. 67; seduto su questa luna, p. 68; li
guardo dormire, p. 77).
Ma con rilevanza si snoda la meditazione
sulla precarietà dell’esistenza con una forte percezione soggettiva del succedersi
delle impressioni nei vari momenti ( «ogni piccola tappa / è un attentato alla
meta più vicina», p. 34; «il risveglio è questa macchia /
lontana di fiori», p. 35), a cui si accompagnano la meraviglia di fronte
alla natura (il giardino delle rose,
p. 38; più di me fu l’albero, il
cantuccio, p. 70), la fiducia nelle parole («parole importanti / qui si
rompono / e ricompongono», p. 42), la difficoltà di comunicazione totale anche
nell’intimità («quello che non si sa
di te […] quello che non sai di me», p. 51), la
persistente fiducia nella vita («Dell’aurora amo la promessa», p.
55). Tutto sta nel forse, anzi nei piccoli forse
che rappresentano le incrinature dell’esperienza esistenziale che aprono quelle
fessure che possono essere di
disperazione («allargassi lo spiraglio / mi vedrei franare / a pezzi, p. 63»),
ma tramite le quali si potrebbero ipotizzare aperture verso quegli orizzonti
che fanno sì che «ogni Adamo ti chiama Padre»
(p. 58). A prevalere è, però, il dubbio per cui «tutto viene accatastato
all’angolo / resta solo un gioco di specchi» (p. 59), mentre anche gli
obiettivi si rivelano ingannevoli («Itaca è l’inganno!», p. 65). Gli
spiragli restano tali, non si aprono a orizzonti di fiduciosa immensità, per
cui la conclusione ha note di amarezza: «il mondo è questa stanza stretta / ad
ognuno il suo metro cubo di / desiderio e realtà che fanno a botte» (p. 79).
La seconda silloge Accecate i cantori (Fara Editore) presenta un titolo che induce
subito a una linea interpretativa di ascendenza classica, che può rifarsi alla
tradizionale figura di Omero, cantore cieco, a personaggi presenti nei poeti
omerici (Tiresia, Demodoco), ma anche a più antiche tradizioni dell’Egitto e
dell’Oriente, a una sentenza dell’oracolo di Delfi («la memoria è la vista del
cieco»), a una sapienza biblica, sempre nella comune idea che la cecità apra a
doti di superiore sapienza e aiuti a scandagliare le profondità dell’anima. Su
questa linea la poetessa cerca «rotte» che perseguano
la «traccia buona / già calcata» (p.
10), consapevole che occorra «non fidarsi più degli
occhi e frugare oltre» (p. 12), ma appoggiandosi su lla «preziosa memoria
dell’aedo» (p. 24), perché l’importante non è quello che gli occhi vedono, ma
quello che il cuore sente e la voce del poeta sa esprimere, portandosi dietro
il bagaglio esperienziale della memoria ( Conto
le sedie vuote, p. 41). A prevalere nel dettato poetico di Angela
Caccia è sempre la specificità espressiva prevalentemente autoreferenziale,
sovente metaforicamente enigmatica, che rende più difficile la comunicazione
con il lettore, con poche occasioni di
un’apprezzabile espressione lirica più distesa e comunicativa, sostenuta da un
bozzettismo personalmente rivissuto tra memoria e rimpianto (Bianca casa di nonna Grazia, p. 48; Mi piacciono le strade lunghe, p. 49; Borghetto di campagna, p. 58; L’ortica ridipinge l’entrata, p. 63).
Nel susseguirsi delle liriche dapprima
la poetessa si sofferma su una riflessione sul male,
per concludere che «non ci si addentra mai al dolore / al male sì / per
fronteggiarlo in qualche modo» (p. 11).
Poi indaga il rapporto con i figli, constatando, con un filo di speranza,
senza l’atteggiamento interrogativo di
leopardiana memoria, che «avrà un senso
questo andare / per campi e per stelle / fiancheggiare i dirupi / e danzare in
un fiotto di sole / tra le pozze di pioggia / avrà un senso…» (p. 14). C’è
fiducia nelle parole della poesia (Di
rabbia, p.15) che, però, possono anche venire a mancare (Giorni senza voglia, p. 42) e
ricomparire nel fuoco sotto la cenere dell’ispirazione («una poesia senza il
punto finale / finché c’è spunto per un altro verso», p. 43), mai sopita e
capace di risvegliarsi nella «manciata di minuti prima dell’alba» (p. 44). Ma
c’è anche la fiducia negli altri («tu
sei il pellicano dal petto gonfio / e lo porgi», p. 16), nella connessione tra
presente e passato per consolidare (e accettare) la «tensione» del vivere (Capita, p. 18; Un (pre)sentimento, p. 20 )
fino a percepire la propria «mano che tesa riceve» quella del Tu che la porge e
«fa trovare pane / dove non lo cerco, ma non conforta completamente e non
protegge «da una verità che fa male..» (p. 27), nei cui confronti anche la
parola poetica, disvelandosi nella ricerca, risulta inadeguata (la poesia sta dietro, p. 32), per la consapevolezza esperienziale che il
male prevale sul bene (Addobbavamo a
primavera, p. 31) e che gli interrogativi da rivolgere con sconforto a Dio
sono sempre in agguato (Mia madre e la
sua demenza / … madre demenza, p. 37; Non
si perdona, p. 45).
Con queste due raccolte Angela Caccia
conferma la validità della sua produzione poetica in cui la riflessione sulle
grandi tematiche dell’esistenza umana trova forme espressive di grande novità e
sicura efficacia nell’intreccio di metafore e sinestesie di intensa originalità
creativa.
Rosa Elisa Giangoia