È UNA FERITA LA BELLEZZA – Dal blog
FARAPOESIA
“… mi abituo / a declinare la parola morte,
denominatore / che non fa sconti a chi resta) // non chiedermi il perché / di
questi adombramenti / il vento – a volte – ha carezze tristi” (p. 16). Se la
morte, come ci ricorda Leopardi nelle Operette morali, è “nemica
capitale della memoria” eppure ha care la Rime del Petrarca,
trovandovi il suo Trionfo, la nostra vita – mutevole e precaria in vario grado
e comunque a scadenza – non può che veleggiare umanamente in bilico fra essere
e non essere (si veda la precedente raccolta Il tocco abarico del dubbio) e fare del
“forse” una strategia di sopravvivenza. Certo rimane sempre aperta la
prospettiva della fede, che ingloba l’incertezza e dà sostanza alla speranza,
ma Angela Caccia sa ben essere ancorata
anche alla quotidianità, con le sue fatiche (“… si viaggia tutti / con un’Itaca
nel cuore e il puzzo / di un incendio domato addosso”, p. 34), le sue svolte
inattese se non incredibili/incomprensibili (anche in senso positivo), le sue
domande eterne che rimangono razionalmente senza risposta, se non appunto
dubitativa o contraddittoria: “(quale dose di distrazione è concessa / perché
il peccato si chiami buona fede?)”, p. 56; “e chissà se le stelle
profilerebbero / il tuo volto se le legassi / con un tratto di matita”, p. 58;
“i sogni, solo nuvole che s’azzuffano / – la realtà è da sempre dissidente – /
ma non sarà un sogno a dilaniarti, / piuttosto il non crederci fino in fondo”,
p. 73.
I “forse” sono una modalità per ampliare
lo spazio, a volte assai ristretto e pesantemente condizionato, della nostra
libertà. Sono “forse” piccoli, modesti, che desiderano insinuarsi con una
ironia sempre sottotraccia negli interstizi di una condizione umana non priva
di muri, limiti, seduzioni perniciose come il canto delle sirene… ma forse (e
uso anch’io questo avverbio del resto così caro anche al mio conterraneo Renato Serra) più che il tema del ritorno di
cui parla nella suggestiva prefazione Davide Rondoni (che nei piccoli
forse di Angela Caccia vede giustamente “segnali della infinita
possibilità della vita”, p. 11), più che il tema del ritorno, dicevo, penso che
il leitmotiv di questo libro sia quello della ricomposizione sempre in fieri e
sempre in gioco del nostro essere, del nostro luogo nel mondo, del nostro
cuore, dei nostri pensieri che tendono alla dispersione: “nel legno riposerà la
forma / ma è nella carne / che si agita il demone // convincerlo che ogni sogno
/ si paga a piccole rate è solo / un tentativo di convivenza” (p. 64). Sì
perché ciascuno di noi ha il proprio demone, le proprie paure inconsce da
accogliere ed elaborare, le proprie ferite visibili e invisibili da curare, i
propri vuoti da colmare… c’è sempre una tensione fra abbandono e resistenza,
cerchiamo costantemente di ri-trovarci nonostante le frammentazioni fisiche e
relazionali, il naturale decomporsi del nostro organismo, l’inevitabile trasformazione
dell’ambiente naturale e antropico in cui viviamo. Sentiamo però nell’anima (e
il poeta e il santo lo sentono con una intensità assoluta) che non tutto andrà
perduto, che siamo destinati a ricomporci e che se qualcosa ci spinge a
distruggere abbiamo pur sempre la libertà della misericordia che ci spinge a
prenderci cura, a spenderci per contrastare il male e rendere possibile
l’azione benefica dell’amore. Certo abbiamo bisogno di un soccorso
dall’alto che ci faccia sentire amati e preziosi per come siamo e ci proietti
oltre la nostra solitudine e valorizzi le nostre crepe che sono le ferite
necessarie all’azione della grazia: “è una ferita la bellezza / che non si
infilza sul foglio / un dolore acuto e gustoso/ in cui l’io – felice – si
dibatte” (p. 44); “sei questo pugno di buona semenza / che mi cade dentro /
alla rinfusa” (p. 52); “fulminea bruciante / un’incisione a crudo / –
allargassi lo spiraglio / mi vedrei franare / a piccoli pezzi – / e sto qui /
con la maschera più bella” (p. 63).
La poesia di Angela Caccia è musica
visiva, scavo del corpo, condivisione di anima, sguardo sonoro che ci immerge
nel creato e ne rivela il mistero dolente eppure meraviglioso perché è proprio
nel punctum esiziale che possiamo aprirci alla salvezza (o più
laicamente all’assoluto, all’infinito): “chiodi le stelle / reggono a stento /
una notte altrimenti / in predicato di cadere” (p. 65); “oggi sto nei bordi del
mio corpo / – braccia conserte, la parola / lucida e ferma, buona solo a /
macchiare il foglio / ma più di me / conosce il centro / della ferita / e tace”
(p. 71).
Alessandro Ramberti
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