È nebbia è buio, gli occhi non cercano
una traiettoria, soppesano il caos fumoso e trovano una giustificazione alla
loro inerme cecità. Dopo, solo dopo ti accorgi che il non esserti addentrata non è stata esattamente una tua scelta ma
l’unica forma di sopravvivenza.
Ho sempre pensato che sperare abbia in sé un nucleo
indistruttibile infitto e innato di felicità. Non si tratta di una sana abitudine
o il frutto di un’educazione né credo sia la prerogativa dell’ottimista -anzi …
se penso alla speranza penso a un buio tubero: solo alcuni dei suoi germogli,
in un lento moto verticale, si dissotterrano seguendo la luce che è riuscita a
raggiungerlo nei suoi anfratti. Sperare, quindi, potrebbe essere il risultato
di una buona manutenzione della realtà: eliminare le ragnatele che impediscono
a quella luce di raggiungere i miei avvallamenti, e illuminarli e vivificarli.
In quel tubero, l’albero da cui proviene
e quello che lui stesso sarà, ecco perché cresce nella terra dei senza-sogni.
Così silente, il dolore è stata la tappa più vicina a questo momento in cui ogni
energia non è più impegnata -e sprecata- a credere in
una qualunque manna, ma sa
farsi proposito e possibilità, progetto e costruzione -e tu ti riscopri la
nota, tra tante, di una stessa melodia.
È un cielo a ondate di rosa quello di
stamattina, si alternano nubi dalla più vicina alla più lontana come se le
dimensioni del tempo fossero compresenti. Come se dal passato giungesse ancora,
così carico di orrore, l’urlo dell’uomo di Munch, ma solo per mescolarsi al
nostro canto di speranza.
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