Sbaglierò,
ma non credo corretto –nei nostri e nei confronti dell’autore- andare a
leggere, prima delle liriche, la loro pre o post fazione: la lettura di una
silloge è un tête-à-tête che non ammette intrusioni,
almeno fino a quando il lettore non modula il suo fiato a quello del poeta e,
quindi, ne smaga –sonda e regge- l’ampiezza del respiro. È proprio il momento
dell’incontro che si va a pregiudicare se, alla tensione del lettore nel
tessere maglia a maglia quella confidenza, si sostituisce un -seppur valido-
biglietto di presentazione: filtri e sapori che porgono un preconfezionato, non
l’originale.
Il
disvelamento, a volte, è dopo le prime pagine, ma questo libro –Una specie di
abisso portatile di Luisa Pianzola edito da La vita felice- mi ha tirato il collo fino all’indice…
La
poesia funziona quando ti restituisce
un gusto -buono o cattivo, ha poca importanza perché, comunque, fa i conti col
nostro di gusto, entrando in frizione o in armonia- che sia portatore sano di
un sapore netto e suo.
Nel
libro della Pianzola –almeno nelle prime pagine- è come andare alla ricerca di
farfalle col retino rotto: eppure in ogni lirica, c’è qualcosa che ti ritorna, ti chiama –e richiama-
col suo non senso, a un senso. Lo so, è un bisticcio di parole, ma ciò che tento
di dire è che è lettura intrigante in questo suo procedere tra la sfida e la
resa a continuare: la briciola, che si raccoglie in ogni lirica, ti fa voltare
pagina e proseguire, stando sempre all’erta.
Scrive
bene Mario Santagostini
La lingua di Luisa Pianzola
è zeppa di situazioni fluide, sospese tra senso e non-ancora-senso. Direbbe il
tecnico: è zeppa di situazioni produttive. È lingua viva, insomma. Vivissima.
Ancora in fieri, in evoluzione
permanente. Dove l’“espressività prevale sulla mimesi”.
Ma non
è sana. Riproduce se stessa e i propri punti critici. Se stessa e i propri
virus. Il sistema genera se stesso e il proprio caos, insieme.
In fondo,
il libro di Luisa Pianzola comunica esattamente, spietatamente, perfino
dettagliatamente questo: il suo essere scritto in una lingua che apre momenti
di insignificanza. Talvolta: abissi di insignificanza. Senza chiuderli.
Comunica, in fondo, che quando noi parliamo o pensiamo o scriviamo o
raccontiamo o ci raccontiamo, in quella narrazione si aprono, inevitabilmente, buchi
di senso e momenti di follia.
Buchi di senso e momenti di follia in cui la costante è proprio
l’entusiasmo della parola poetica, tipica –scomodando i nostri padri Greci- di
chi ha in sé un dio –en theos: dio opera in noi. Del resto, anche Platone, nel
Fedro: Chi senza la follia delle muse si
avvicina alla poesia, inutile è lui e la
sua arte, perché davanti la poesia dei folli, la poesia del saggio,
ottenebrata, scompare.
E il dio della Pianzola cammina le nostre strade, vive anche
lui di preoccupazioni
I bimbi sono cresciuti. Uno
sfavillio
di domande, di vita di tutti
i giorni, quella
un poco snervante.
Ripercorriamo i loro
spostamenti giù dal letto su
per le scale,
dentro i cortili della
Fitteria. Tra qualche anno
ne faremo una squadra, di
quelle che vincono
o comunque puntano alla
vetta della classifica.
Ma per ora ci accontentiamo
di salvarli
un poco alla volta,
scuoterli con minacce alla mano
e stimoli alla riconoscenza.
(da pag. 16)
di angosce, per un futuro così paludoso che vorresti entrare
in letargo e risvegliarti ai bagliori di una qualunque primavera
Come il paguro metti su casa
di lato,
mantieni il disastro a una
distanza ragionevole.
Il meteo dice variabile,
vuoto.
La tua risorsa è intatta. La
valigia traballante
ti spinge a ritroso:
tabaccheria, incrocio,
bar d’angolo, cortile di casa.
(pag.26)
e poi ci rinunci solo perché non c’è io che possa dirsi vivente senza un’interazione col tu che
lo definisce, lo slancia
Ma poi non è nemmeno questo,
è il vuoto
la vacanza il segno meno del
diagramma
a parlare la lingua
dell’incontro.
Quando la conoscenza irrompe
non voluta
e gli impulsi alterni cedono
alla tensione
il carico normale si offre
come un paniere
onesto da decifrare.
E il corpo smemorato non si
attrezza (pag.31)
e da quel “noi”
Cominci a sentirti carne da
nutrimento,
a sentire il tuo corpo
materia di nutrizione
per le generazioni più
giovani. (pag.46)
Insieme, qualunque cosa sia “il dopo”
Immagino ci sia un dopo, un
di più
da approfondire, un
dettaglio da rendere
massimamente.
Allontanando l’angoscia si
ritrova la strada
qualcuno la merita, altri
s’accontentano
tutti in genere ci
spaventiamo all’idea
e c’infiliamo di corsa nel
primo bar. (pag.39)
E svettando e precipitando tra senso e non senso, in quel
precario equilibrio su un filo che la Pianzola magistralmente tiene sempre
teso, arrivo all’ultima pagina: il sapore è netto, buono, e sta tutto in questa
strana e gioiosa meraviglia per quanta vita mi ha attraversato.