Angela Caccia
“Il tocco abarico del dubbio”
Fara Editore, 2015
“Chi scrive, in fondo, ha solo sé come scandaglio, sé da proporre, in ricchezza e in povertà”. Così Angela Caccia, in una delle prose poetiche (genere per il quale ammetto una segreta predilezione) che scandiscono le sezioni di questo libro. E continua: “Non credo a quanti dicono di volersi sfrondare del personale e porgere in una versione universale. Tra veli e disvelamenti si può offrire unicamente sé stessi al lettore”.
E dunque, quale sé porge Angela
al lettore? Il titolo ci fornisce una chiave di lettura: il dubbio, con il suo
tocco “abarico” (confesso, ho dovuto ricorrere al vocabolario, esercizio del
resto sempre utile: “abarico” è il punto in cui la gravità della Terra e quella
della Luna si annullano a vicenda). Un sé fluttuante, quindi, che diventa
il crivello attraverso cui filtrare il mondo esterno. Un sé tutto calato nello
spazio e nel tempo, nel puro esserci heideggeriano,
citato dall'autrice stessa.
Priva di una precisa struttura, la silloge
procede piuttosto tracciando gli infiniti ondeggiamenti della coscienza.
Eppure, alcuni temi emergono prepotenti: gli affetti familiari, il dolore della
separazione, il dialogo con la memoria, l'osservazione amorevole della natura,
la riflessione sul farsi della parola poetica (la mia preferita: “poesia è quella parola che […] dà più di
quanto dice”); e infine la morte, che torna insistentemente nel libro, fino
a costituirne quasi una trama segreta. Una morte che è spesso declinata nella
forma dialogo con i cari scomparsi: ad esempio in Ti aspettavo,
dove una bambina nata da un anno appena, con il suo sguardo “di zucchero filato” e “di frutta candita profumata”, aiuta a
costruire un ponte fra chi arriva e chi, invece, se n'è andato. Ma la morte
viene rappresentata anche nella sua più cruda evidenza (“il puzzo della morte” evocato in La nuova rotta). Di
fronte ad essa, la fede può offrire una consolazione, ma non indurre a
distogliere gli occhi: “gli occhi di chi resta” (come recita il titolo di
un'intensa poesia dedicata ai naufragi dei clandestini nel Mediterraneo).
(Viene in mente, a me inveterato
agnostico, una grande scrittrice cristiana – e cattolica – come Flannery
O'Connor, la quale sosteneva non si potesse essere realisti se non nella misura
in cui si era toccati dalla Grazia divina, e che quindi il vero cristiano non
può essere altro che realista, perché cosciente della convivenza ineliminabile
del Bene con il Male, della quale è permeato mondo che ci circonda).
Lo stile, infine. Lo stile di Angela
Caccia è nitido, aderisce alle cose avvolgendole di un lirismo asciutto e senza
fronzoli. Uno stile trasparente, mi verrebbe da dire; “abarico” anch'esso,
leggero come sono le cose profonde.