martedì 19 maggio 2015

Lettura di Il tocco abarico del dubbio di Angela Caccia - Nazario Pardini





Una estesa vivacità morfologica che si aggrappa a lumi di luna per farsi poesia

Realtà, immaginazione, odisseici spazi, odeporici sperdimenti, incontri e distacchi; tutto ciò, insomma, che fa della vita un gioco doloroso, inquieto, gioioso, anche, ma pur sempre avvolto da un dubbioso velo di mistero. Dalla realtà alla verità, la direi questa mia esegesi sulla plaquette di Angela Caccia; un tragitto  incommensurabilmente lungo, il cui traguardo è di difficile conseguimento considerando l’esilità delle forze umane nell’ambire a quella luce che squarcia la tenebra di un orizzonte senza limiti. Zeppo d’incognite:

(…)
Sai di strada
ora polline
ora spora di soffione
scavi tra le pietre
frughi ancora
tra le radici

un altrove il cammino
dubbia la meta
e sempre quel gusto netto:  

da sottili geometrie di sillabe
cade una tua carezza e ti sembra
di toccarle le parole (Geometrie).

Una verbalità di intrecci secchi e apodittici che si sfuma in una mèsse di parole pronte a fare del dubbio una verità di suoni e di radici in un sogno che neppure il giorno, con tutta la sua luce, riesce a rendere vero; a distoglierlo da una notte che incombe dato che la morte è privilegio per chi vive:

(…)
Laghi castani
appannati da un fondale
che la sabbia sconvolge

atolli
dove il mio amarti
ha perso le chiavi (Per i tuoi occhi),

Linguismo definito, risolutivo, dove il verbo, da solo, fa da verso tanta è la sua soluzione, la sua profondità, la sua essenza traslata, il suo potere iperbolico nella magra riflessione dell’esserci.
 Ed è così che si fanno avanti i dubbi, e le incertezze del nostro vivere. Le insicurezze che tanto inquietano il percorso esistenziale della Caccia. Per questo il suo “Poema” si fa fortemente umano, carico di quei tanti perché che non trovano soluzione. E l’Autrice intende dare tutta se stessa al verso con genuina apertura, e con slanci di emotivo coinvolgimento; è ad esso che raccomanda il suo pathos, la sua plurima e polimorfica interiorità, il suo sguardo sul dolore:

Vicino e altrove
sospeso senza forma
cadi su di me col suono
della neve

dovrò sostare nel tuo vuoto
per sgamarti

poi ti sfebbrerò sulle ginocchia
saremo amici
e ti darò un nome (Sul dolore).
È ad esso che affida il compito di concretizzare la sua identità. E ne esce un vero ritratto psicologico di zeniana memoria. Dove l’essere e l’esistere, nel loro procedere di contrapposizioni, si fanno corpo vivo della vicenda; polemos tra gli opposti e simbiotica fusione dei contrari: giorno e notte, alfa e omega, tristezza e gioia, luce di albe e pensieri di morte:

(…)
Morire magari
con la luna dei monti
in un coro di stelle
nel silenzio di rose selvagge

a chi amo
tra un’eco e la voce
il mio amen
e le braccia allungate
dell’alba (Le braccia allungate).

Sì, è dalla loro fusione che nasce il mestiere di vivere,  quello spleen che spinge il cuore ad azzardarsi oltre la siepe che demarca il nostro vivere. Là dove è possibile cercare quella parte di noi che ci è sconosciuta; e che tante volte ritroviamo in certe confessioni affidate a versi che escono con pudore e piede felpato dai nostri impatti vicissitudinali, col ricorso, anche, alla memoria che spesso ci porta a vicende sepolte dal tempo, ma rimaste a decantare in un’anima zeppa di abbrivi:

Vita morte
indissolubile diade
e i nostri occhi impigliati nei suoi fili
(…)
A noi, strati di tempo,
memorie ancora da colmare
il difficile piacere del dubbio

che sia finta
la frontiera su quel crinale
se chi muore chiede conto
della propria morte
a chi resta (Nello sguardo di chi resta).

Sono scaglie di mare, solatii collinari, serali incantesimi, sguardi maliziosi, o parole non dette, che tornano a galla impetuosi con la voglia di vivere, di farsi presenti con un senso di melanconico disagio, di dolce turbamento per cose non fatte, per abbandoni trattenuti, o per volti e immagini che ci hanno lasciato quando meno ce lo aspettavamo:

(…)
Alle sei del mattino il cielo
che pende sull’ospedale
ha più rondini

è come una grande festa

una sedia vuota
piange la tua assenza

bastò un granello
a zavorrarti l’ala

dov’è la traiettoria del sole
il volo d’aquila
la vetta… (Psyché).

È il gioco di Kronos, con tutto il suo potere sottrattivo, a fare di noi dei poveri ambulanti spersi su cieli senza limiti. Quel tempo che significa precarietà, debolezza dei nostri mezzi; quel divenire implacabile che ci dà la coscienza della nostra fragilità. E viene spontaneo misurarci col tanto, col tutto, con in cuore la sconfitta, data la miopia del nostro essere di fronte al disumano tracimare dell’infinito. Tutto questo contiene la plaquette della Nostra; tutto ciò che la incanta e la demolisce, tutto ciò che la esalta e l’avvilisce; in quanto la sua pienezza ontologica è tormentata da quel milieu entre rien e tout di pascaliana memoria. Una complessità che tanto dice di ognuno di noi, del nostro continuo misurarci col potere del giorno e quello di Thanatos. Una rete verbale attenta che verte ad oggettivare e a rendere plurali gli input emotivi di Angela in questo suo travaglio personale; in questa sua ricerca d’intensità epigrammatica:


Tocca scendere
i gradini ogni notte
ogni notte
scrollarsi dal sé

cade piano nella scena
l’altra me così segreta
alla coscienza.
(…)
Si risponde tutti all’alba
con gli avanzi di un sogno (L’altra me).

Insoluzioni, desideri, pensieri informi, rumori sordi, spiccioli di notte, il fiato corto; l’iterante e odeporico percorso di thanatos ed eros: tante risposte e nessuna di fronte alla bellezza di un sole rubino in un cielo retto dagli alberi. È questa la dualità che fa della Nostra un volatile dalle superbe ali di aquila. Di un’apertura tale da poter spiegare voli verso cime difficilmente raggiungibili. Perché quello che alla fine primeggia in questo “Il tocco abarico del dubbio” è il sapore della vita con tutte le sue dicotomie; dell’amore che fuoriesce con prepotenza da stazioni di via crucis; è proprio l’affetto per questa irripetibile storia che è l’esistere a offrire alla Nostra motivo di riflessione e turbamento; un ontologico travaglio che trova terriccio fertile in parole-luce con i suoi slanci che vanno oltre il senso della sintassi:

Avremo di che vivere io e te
quando nulla più morderà il secondo
e il tempo sarà un lago incolore
alla mercé di albe e tramonti
(…)
ma fino ad allora
avremo di che vivere io e te
riflesso di specchio che non cogli
odori suoni
e quale oceano si agita in questo fodero (Io e te),

e che fanno del naturismo un gioco di sinestetici ritorni ad alimentare con ardua metaforicità la visività degli abbrivi emotivi: pigolii di piogge, umori mesti di foglie, gocce capovolte, fiumi di pagine, schizzi di sillabe, o scoiattoli di parole. Una estesa vivacità morfologica che si aggrappa a lumi di luna per farsi poesia.

Nazario Pardini