Una estesa vivacità morfologica che si aggrappa a lumi di luna
per farsi poesia
Realtà,
immaginazione, odisseici spazi, odeporici sperdimenti, incontri e distacchi;
tutto ciò, insomma, che fa della vita un gioco doloroso, inquieto, gioioso,
anche, ma pur sempre avvolto da un dubbioso velo di mistero. Dalla realtà alla
verità, la direi questa mia esegesi sulla plaquette di Angela Caccia; un
tragitto incommensurabilmente lungo, il cui traguardo è di difficile
conseguimento considerando l’esilità delle forze umane nell’ambire a quella
luce che squarcia la tenebra di un orizzonte senza limiti. Zeppo d’incognite:
(…)
Sai di strada
ora polline
ora spora di
soffione
scavi tra le pietre
frughi ancora
tra le radici
un altrove il
cammino
dubbia la meta
e sempre quel gusto
netto:
da sottili
geometrie di sillabe
cade una tua
carezza e ti sembra
di toccarle le
parole (Geometrie).
Una verbalità di
intrecci secchi e apodittici che si sfuma in una mèsse di parole pronte a fare
del dubbio una verità di suoni e di radici in un sogno che neppure il giorno,
con tutta la sua luce, riesce a rendere vero; a distoglierlo da una notte che
incombe dato che la morte è privilegio per chi vive:
(…)
Laghi castani
appannati da un
fondale
che la sabbia
sconvolge
atolli
dove il mio amarti
ha perso le chiavi (Per i tuoi occhi),
Linguismo definito,
risolutivo, dove il verbo, da solo, fa da verso tanta è la sua soluzione, la
sua profondità, la sua essenza traslata, il suo potere iperbolico nella magra
riflessione dell’esserci.
Ed è così che
si fanno avanti i dubbi, e le incertezze del nostro vivere. Le insicurezze che
tanto inquietano il percorso esistenziale della Caccia. Per questo il suo
“Poema” si fa fortemente umano, carico di quei tanti perché che non trovano
soluzione. E l’Autrice intende dare tutta se stessa al verso con genuina
apertura, e con slanci di emotivo coinvolgimento; è ad esso che raccomanda il
suo pathos, la sua plurima e polimorfica interiorità, il suo sguardo sul
dolore:
Vicino e altrove
sospeso senza forma
cadi su di me col
suono
della neve
dovrò sostare nel
tuo vuoto
per sgamarti
poi ti sfebbrerò
sulle ginocchia
saremo amici
e ti darò un nome (Sul dolore).
È ad esso che
affida il compito di concretizzare la sua identità. E ne esce un vero ritratto
psicologico di zeniana memoria. Dove l’essere e l’esistere, nel loro procedere
di contrapposizioni, si fanno corpo vivo della vicenda; polemos tra gli opposti
e simbiotica fusione dei contrari: giorno e notte, alfa e omega, tristezza e
gioia, luce di albe e pensieri di morte:
(…)
Morire magari
con la luna dei monti
in un coro di
stelle
nel silenzio di
rose selvagge
a chi amo
tra un’eco e la
voce
il mio amen
e le braccia
allungate
dell’alba (Le braccia allungate).
Sì, è dalla loro
fusione che nasce il mestiere di vivere, quello spleen che spinge il
cuore ad azzardarsi oltre la siepe che demarca il nostro vivere. Là dove è
possibile cercare quella parte di noi che ci è sconosciuta; e che tante volte
ritroviamo in certe confessioni affidate a versi che escono con pudore e piede
felpato dai nostri impatti vicissitudinali, col ricorso, anche, alla memoria
che spesso ci porta a vicende sepolte dal tempo, ma rimaste a decantare in
un’anima zeppa di abbrivi:
Vita morte
indissolubile diade
e i nostri occhi
impigliati nei suoi fili
(…)
A noi, strati di
tempo,
memorie ancora da
colmare
il difficile
piacere del dubbio
che sia finta
la frontiera su
quel crinale
se chi muore chiede
conto
della propria morte
a chi resta (Nello sguardo di chi resta).
Sono scaglie di
mare, solatii collinari, serali incantesimi, sguardi maliziosi, o parole non
dette, che tornano a galla impetuosi con la voglia di vivere, di farsi presenti
con un senso di melanconico disagio, di dolce turbamento per cose non fatte,
per abbandoni trattenuti, o per volti e immagini che ci hanno lasciato quando
meno ce lo aspettavamo:
(…)
Alle sei del
mattino il cielo
che pende
sull’ospedale
ha più rondini
è come una grande
festa
una sedia vuota
piange la tua
assenza
bastò un granello
a zavorrarti l’ala
dov’è la
traiettoria del sole
il volo d’aquila
la vetta… (Psyché).
È il gioco di
Kronos, con tutto il suo potere sottrattivo, a fare di noi dei poveri ambulanti
spersi su cieli senza limiti. Quel tempo che significa precarietà, debolezza
dei nostri mezzi; quel divenire implacabile che ci dà la coscienza della nostra
fragilità. E viene spontaneo misurarci col tanto, col tutto, con in cuore la
sconfitta, data la miopia del nostro essere di fronte al disumano tracimare
dell’infinito. Tutto questo contiene la plaquette della Nostra; tutto ciò che
la incanta e la demolisce, tutto ciò che la esalta e l’avvilisce; in quanto la
sua pienezza ontologica è tormentata da quel milieu entre rien e tout di pascaliana
memoria. Una complessità che tanto dice di ognuno di noi, del nostro continuo
misurarci col potere del giorno e quello di Thanatos. Una rete verbale attenta
che verte ad oggettivare e a rendere plurali gli input emotivi di Angela in
questo suo travaglio personale; in questa sua ricerca d’intensità
epigrammatica:
Tocca scendere
i gradini ogni
notte
ogni notte
scrollarsi dal sé
cade piano nella
scena
l’altra me così
segreta
alla coscienza.
(…)
Si risponde tutti
all’alba
con gli avanzi di
un sogno (L’altra me).
Insoluzioni,
desideri, pensieri informi, rumori sordi, spiccioli di notte, il fiato corto;
l’iterante e odeporico percorso di thanatos ed eros: tante risposte e nessuna
di fronte alla bellezza di un sole rubino in un cielo retto dagli alberi. È
questa la dualità che fa della Nostra un volatile dalle superbe ali di aquila.
Di un’apertura tale da poter spiegare voli verso cime difficilmente
raggiungibili. Perché quello che alla fine primeggia in questo “Il tocco
abarico del dubbio” è il sapore della vita con tutte le sue dicotomie;
dell’amore che fuoriesce con prepotenza da stazioni di via crucis; è proprio
l’affetto per questa irripetibile storia che è l’esistere a offrire alla Nostra
motivo di riflessione e turbamento; un ontologico travaglio che trova terriccio
fertile in parole-luce con i suoi slanci che vanno oltre il senso della
sintassi:
Avremo di che
vivere io e te
quando nulla più
morderà il secondo
e il tempo sarà un
lago incolore
alla mercé di albe
e tramonti
(…)
ma fino ad allora
avremo di che vivere
io e te
riflesso di
specchio che non cogli
odori suoni
e quale oceano si
agita in questo fodero (Io e te),
e che fanno del
naturismo un gioco di sinestetici ritorni ad alimentare con ardua metaforicità
la visività degli abbrivi emotivi: pigolii di piogge, umori mesti di foglie,
gocce capovolte, fiumi di pagine, schizzi di sillabe, o scoiattoli di parole.
Una estesa vivacità morfologica che si aggrappa a lumi di luna per farsi
poesia.
Nazario Pardini