Icastica,
profonda e provocatoria.
Originale,
cesellata e diafana.
Densa
di vibrazioni.
Così si
presenta l’ultima fatica letteraria della poetessa Angela Caccia, pubblicata da Alessandro Ramberti di Rimini. Il
titolo Il tocco abarico del dubbio è suggestivo, incuriosisce e mi spinge a porre
mano al vocabolario o, per essere più veloce, ad una ricerca su Google. Mi
viene, però, in soccorso la puntuale e completa prefazione di Anna Maria Bonfiglio che dà una spiegazione esauriente del punto
abarico: quella zona in cui le forze gravitazionali terrestri e lunari si
annullano a vicenda generando un punto zero, dove si inserisce il dubbio. Il
dubbio, che ha appassionato scrittori come Luciano De Crescenzo, viene
considerato un buon amico, una divinità che bussa con gentilezza alla porta di
ognuno e chiede di essere ascoltata. La Nostra ne ha percepito i colpi e si è
messa in movimento, permeando i suoi versi di appassionanti e misteriosi
interrogativi.
Dalle
pagine del florilegio, un misto di poesia e prosa, ci vengono incontro le onde
del mare crotonese, che si infrangono su filigrane di cristallo, con una sonorità
chiara e una nota cupa, il volo dei gabbiani, i biondi campi di grano, il
fruscio degli ulivi, i sentieri di rose canine sorvegliati da un cielo a
scacchi. In questo incantevole paesaggio calabrese, colorato di azzurro,
trascorre il suo tempo la poetessa, si immerge nel chiaroscuro del bosco,
perdendosi nei gomitoli di sogni e nella musica di Debussy. Sorvegliata dalla
luna, si lascia cullare dal mare, spettinare dal vento; affida alle parole il
suo dolore, sospeso senza forma, per la scomparsa della madre, che sarà altrove
nell’incavo di mani più grandi. E il dubbio l’assale per la morte non solo dei
suoi cari ma anche dei numerosi naufraghi di Lampedusa se chi muore chiede
conto della propria morte a chi resta.
Il dubbio subentra anche quando si rimane
feriti nell’amore, quando c’è contrasto tra madre e figlio. Di notte l’altra
parte dell’io si toglie la pelle del giorno e si aggira in libertà vigilata in
un tempo senza binari. La solitudine l’avvolge aspettando, con l’anima
rovesciata a terra, che l’alba si allarghi e si stenda nel cuore. Si rifugia
nei sogni leggendo Rainer Maria Rilke, per sperdersi, alla maniera di Leopardi,
nel suo mare. Si consola con Pablo Neruda, i cui versi ronzano ancora come
sciami; con Margherita Guidacci, accomunate entrambe dall’inquieto amore; dà
pennellate alla Cézanne, senza trascurare De Chirico e Picasso.
Sembra
che le sue poesie, suddivise in cinque sezioni, siano pensieri sparsi, ma
ovunque si respira la filosofia dell’esserci di Heidegger, secondo il quale
l'esistenza umana significa essenzialmente trascendenza, protesa, però, allo
stesso tempo verso il mondo, al fine di modellarlo e progettarlo. Si avverte
una continua ed affannosa ricerca nel prendere coscienza che la crescita è un
gioco di ombre, il pedaggio per modellarsi la vita; che la sua terra di
dolcezze amare, è radici senza più fiore, osservando l’onda che resse zattere e
valigie di cartone. C’è sempre una dualità di elementi in contrapposizione fra
loro: Alba – tramonto. Luna –sole. Sera - mattino. Vita - morte. Secco -
fiorito. Luci- ombre. Razionalità - sentimento. Molte sue riflessioni sono
perle di saggezza, diventano aforismi da trascrivere con cura e sottoporre a
meditazione.
Molti
gli interrogativi sul senso della vita in attesa di risposte. Solo la fede in
Cristo, morto sulla croce e risorto, può far guadagnare occhi nuovi per
guardare al di là del cielo, abbracciando la propria croce per una nuova rotta.