Forse
in ognuno di noi, per certo in chi spulcia versi nel fiume in piena del quotidiano
– da cui astrae l’attimo/verso: il picchetto di una consapevolezza che si
stanzia nella memoria e si deposita come un punto fermo -, c’è una parola
ricorrente, camuffata in mille sinonimi, particolarmente amata; oppure un
equivalente: una semplice bizza. Un segreto e ben celato start da cui ripartire quando l’onda cancella tutte le nostre orme
alla battigia? A lei – parola o bizza che sia - le nostre chiavi di riserva:
una mappa per ritrovare le coordinate.
Nel
titolo, I giorni le strade, un implicito richiamo allo scorrere del tempo, e di
noi nel tempo: a ciascuno la sua dose di albe e tramonti sul pezzo di strada circoscritto
dalla nascita alla morte.
Mi
soffermo, in questa silloge, su una poesia in particolare, attraverso cui, a
torto o a ragione, ho filtrato il resto delle liriche.
Da pag. 18
non ho radici
sosto dove sto bene
rubo all’istante il suo significato
consegno ad uno scrigno
ciò che ho avuto
affido al vento ciò che ho dato
poi continuo a nuotare
Poesia
zingara, con tutto il fascino che l’aggettivo implica, che declina in versi l’essere
nomade apolide libera dell’autrice, a dispetto di quanto la vorrebbe
incatenare.
Né si incontra, tra le altre liriche, il sottile
compiacimento di chi si dichiara divincolato da tutto e, in verità, è già
legato a doppio nodo ad un concetto specifico di libertà che lo ingabbia; la De
Angelis conosce bene “anche” il peso del non avere radici, il terreno paludoso
e instabile dove il passo si deve adeguare. Non le rinnega, le sue radici, semplicemente
se ne divincola per volare e planare altrove, e lì (ri)fiorire in un innesto
naturale di nuovi pollini.
Alcune “fioriture” le ho particolarmente gustate
Da pagina 19
Il poeta sa
farsi pastore del destino
non si ostina ogni giorno
sulla bilancia
Sa di non avere lo stesso peso
in estate e in inverno
Lascia la finestra socchiusa
la porta sempre aperta
si nutre di attesa
e mormorii
Da pagina 41
Quando avrò un viaggio tutto mio
resterò a casa
lo adagerò fra i tesori
la luce delle gioie farà strada
fin dove l’arcobaleno colora la tempesta
e l’impossibile raggiunge l’utopia
Da pag. 52
Il pianto non libera
vuole altre lacrime
è sleale scava facilmente
l’anima
resa morbida
fino a renderti muto
Anche al lettore più distratto non sfugge una
particolarità di questo libro, la bizza di cui parlavo all’inizio: nelle liriche
della Nostra non è usato uno specifico segno di interpunzione: il punto.
L’omissione, a mio avviso, ha un significato diverso da quella praticata da
Ungaretti, per il quale la poesia “non finiva” con l’ultimo verso che,
pertanto, non meritava l’argine di un
punto; per Carla… è la vita che continua, tra alti e bassi, grugni sorrisi
occhi bassi, ma continua, coriacea, luminosa, inclemente. Come la natura per i
Greci, anche lei, la vita, è innocente e crudele.
Poesia dove la libertà è misurata per quella che è: parola alta, troppo
alta per l’uomo. Così appare, almeno, fino a quando non scopre che è dal basso,
negli anfratti più reconditi di sé stessi, che inizia a germogliare. E
presuppone una fatica. Intima. Prima che nelle azioni, la libertà si presenta
come un atto assertivo: la volontà del fronteggiare la nostra paura di non
saperla gestire e reggere.
Ma tutto questo Carla lo sa già.