mercoledì 13 maggio 2015

I giorni e le strade di Carla De Angelis


Forse in ognuno di noi, per certo in chi spulcia versi nel fiume in piena del quotidiano – da cui astrae l’attimo/verso: il picchetto di una consapevolezza che si stanzia nella memoria e si deposita come un punto fermo -, c’è una parola ricorrente, camuffata in mille sinonimi, particolarmente amata; oppure un equivalente: una semplice bizza. Un segreto e ben celato start da cui ripartire quando l’onda cancella tutte le nostre orme alla battigia? A lei – parola o bizza che sia - le nostre chiavi di riserva: una mappa per ritrovare le coordinate.

Nel titolo, I giorni le strade, un implicito richiamo allo scorrere del tempo, e di noi nel tempo: a ciascuno la sua dose di albe e tramonti sul pezzo di strada circoscritto dalla nascita alla morte.

Mi soffermo, in questa silloge, su una poesia in particolare, attraverso cui, a torto o a ragione, ho filtrato il resto delle liriche.

Da pag. 18
non ho radici
sosto dove sto bene
rubo all’istante il suo significato
consegno ad uno scrigno
ciò che ho avuto
affido al vento ciò che ho dato
poi continuo a nuotare

Poesia zingara, con tutto il fascino che l’aggettivo implica, che declina in versi l’essere nomade apolide libera dell’autrice, a dispetto di quanto la vorrebbe incatenare.

Né si incontra, tra le altre liriche, il sottile compiacimento di chi si dichiara divincolato da tutto e, in verità, è già legato a doppio nodo ad un concetto specifico di libertà che lo ingabbia; la De Angelis conosce bene “anche” il peso del non avere radici, il terreno paludoso e instabile dove il passo si deve adeguare. Non le rinnega, le sue radici, semplicemente se ne divincola per volare e planare altrove, e lì (ri)fiorire in un innesto naturale di nuovi pollini.

Alcune “fioriture” le ho particolarmente gustate

Da pagina 19

Il poeta sa
farsi pastore del destino
non si ostina ogni giorno
sulla bilancia

Sa di non avere lo stesso peso
in estate e in inverno

Lascia la finestra socchiusa
la porta sempre aperta
si nutre di attesa
e mormorii

Da pagina 41

Quando avrò un viaggio tutto mio
resterò a casa
lo adagerò fra i tesori
la luce delle gioie farà strada

fin dove l’arcobaleno colora la tempesta
e l’impossibile raggiunge l’utopia

Da pag. 52

Il pianto non libera
vuole altre lacrime
è sleale scava facilmente
l’anima
resa morbida
fino a renderti muto

Anche al lettore più distratto non sfugge una particolarità di questo libro, la bizza di cui parlavo all’inizio: nelle liriche della Nostra non è usato uno specifico segno di interpunzione: il punto. L’omissione, a mio avviso, ha un significato diverso da quella praticata da Ungaretti, per il quale la poesia “non finiva” con l’ultimo verso che, pertanto, non meritava l’argine di un punto; per Carla… è la vita che continua, tra alti e bassi, grugni sorrisi occhi bassi, ma continua, coriacea, luminosa, inclemente. Come la natura per i Greci, anche lei, la vita, è innocente e crudele.

Poesia dove la libertà è misurata per quella che è: parola alta, troppo alta per l’uomo. Così appare, almeno, fino a quando non scopre che è dal basso, negli anfratti più reconditi di sé stessi, che inizia a germogliare. E presuppone una fatica. Intima. Prima che nelle azioni, la libertà si presenta come un atto assertivo: la volontà del fronteggiare la nostra paura di non saperla gestire e reggere.

Ma tutto questo Carla lo sa già.