Fra i libri
di poesia recenti, Il tocco abarico del
dubbio di Angela Caccia, prefato dalla mano felice di Anna Maria Bonfiglio,
è un testo che strattona il lettore perché guarda all’essenziale: nella sua
amarezza, nella sua resistenza morale. Incontriamo un fare poesia che non è
fatto di impressioni e nemmeno di abbandoni puramente vocali, ma di segrete
meditazioni; come a dire d’istinto e riflessione. Di pagina in pagina, di
sessione in sessione, una velocità analogica, una prontezza di scansione
immaginosa che fanno pensare a letture di prima mano; e più ancora, a una
tempra di meditazione da indurre a sostenere, con l’autrice, un modo profondo
di partecipare a una condizione dell’uomo come se fosse appena uscito dalle
mani del Creatore.
Angela
Caccia, nel suo aprirsi alla condizione assoluta di sentirsi essere ed esistente, scrive per imprimere negli occhi che la leggono, prima
che nei pensieri che la collocano da qualche parte nella mente, sillabe
scheggiate dalla nuda verità, quindi in grado di esplorare i sentimenti e il
mondo per nominarlo o ricrearlo.
Dunque una donna viva e vera e, da quel che si ricava, una così mortale cristiana che ogni qual volta
cerca un vocabolo (o il discorso) se lo deve inventare di sana pianta, senza
alcun sostegno se non il suo credo e
la propria volontà di sentirsi in comunione. Tanto da scompaginare il disegno
del suo lavoro (il tocco abarico)
perché l’immagine che raggiunge subito dopo diventa altro, altro che urge e
irrompe sulla pagina per dilacerarsi in una confessione di continuo tentata e
ripresa, discorso che vuole, in qualche modo, essere il disegno stesso
dell’anima piuttosto che un’allegoria della medesima.
Con
questa materia Angela carica la pagina di una tensione ontologica tipica del
poeta che scrive per cercare un interlocutore inferenziale, come direbbe Umberto Eco, poiché virando a 360° apre
tutti i numeri del suo repertorio, e li manda in giro per scoprire le radici
infinite della selva della vita, usando i versi in uno sguardo che propone e
chiede di essere fissato, capito e magari condiviso. E non è pretendere di
sentirsi arrivati, semmai è un grido sincero o, più semplicemente, il dato
inestinguibile della sua coscienza.