Dicono giovanissimi -e finti giovani
-critici letterari che la poesia è tale se esprime uno stile così originale da
non riflettere, nemmeno lontanamente, quello di un poeta doc.
Il che lo trovo
giusto, ma solo in linea di massima: dove sbaglio se affermo che siamo COMUNQUE
il risultato di ciò che abbiamo letto e amato? Che quanto resta addosso viene
filtrato e mesciato con l'io -più o meno - colto e, infine, impastato ad un
vissuto che, vivaddio, non e' mai in fotocopia?
Ciò premesso, mi capita di leggere
versi talmente incomprensibili - ma fedeli ai dettami dei critici di cui sopra,
tant'e' che il limite tra originalità e stramberia è molto labile - che di
questi non mi rimane neanche un vago sapore. Il limite, mi dico, e' solo mio,
mi attrezzo a colmarlo ed e' allora che … mi
impicco da sola:
Leggo versi
m’annoio e leggo versi
tra un se e un ma
molte volte omessi
oceani da fiumi di parole
e poi
l’esca dell’autore:
stramberie,
dal latte di gallina
al sesso d’angeli
né manca l’oscenità
di circostanza a mo’
di linguaggio innovativo
… abboccherà
il raffinato critico lettore?
Lui
che coglie Majakovskij
redivivo o reconditi
proustiani in pure
stravaganze
scrive in tale critichese
che l’Arno
- mi perdonerà Manzoni! -
si autoprosciuga
pur di non lavarlo.
E vedo la poesia
che corre
con la ciambella ai fianchi
a tuffarsi nel bianco
di pagine circostanti.
C'e' qualcosa di diabolico in tutto ciò,
e alludo all’accezione etimologica dell’aggettivo: diavolo, da diàballo, colui che separa.
Si è infatti disposti a (s)vendere "la fatica di
essere se stessi" per il piatto di lenticchie che irreprensibili critici
sapranno offrire (ma anche queste - le lenticchie – dovranno, quantomeno,
risultare altrettanto originali: raccolte ad una ad una, da un primigenio
quanto singolare albero).
Un sorriso...