Lorenzo Spurio, tre connotazioni precise individuano questo poeta e scrittore poliedrico: passione, tanta, passo sicuro, meta scontata.
A lui il mio GRAZIE.
Dal Blog Letteratura e Cultura
Il tempo è un oceano inclemente
separa la battigia dall’orizzonte (p. 38).
Che cosa si nasconderà tra quel “fruscio feroce degli ulivi”? E’ la
primissima cosa che mi sono domandato, libro alla mano, prima di avventurarmi
in questa curiosa lettura. E, soprattutto, perché il fruscio è “feroce”? Ho
immaginato scenari paesaggistici estremi dove la natura si manifestava con
forza ed energia tanto da motivare un fruscio “feroce”, qualcosa del tipo
rintracciabile in passi di romanzi di Thomas Hardy o Jack London. Il percorso
interpretativo, però, era sbagliato.
Questo libro, che si apre con una preziosa nota introduttiva scritta da
Davide Rondoni, si compone di sessantatre poesie che, pur condividendo un
progetto concettuale che le unisce, possono essere suddivise in vari
sotto-temi: si notano, infatti, poesie dal chiaro intento sociale e che si
focalizzano, quindi, su comportamenti/usi diffusi nella nostra contemporaneità
(“Facebook”) e di eventi storicizzati (“Anno 2012”, “Lettera alla mafia”, “A
Giovanni Paolo II”), c’è poi una attenzione sull’atto poetico (quei “coriandoli
di idee”, p. 24) come creazione dove la poetessa confida il legame che la
unisce alla letteratura, alle aspirazioni e influenze (“Autobiografia”,
“Ho letto Borges”) e in ogni caso il tutto è condito da elementi che
riconducono alla natura, soprattutto vegetale (l’ulivo, ad esempio) e la natura
nel suo divenire (l’alba e il crepuscolo), ma che richiamano anche il mito
classico come nel caso di “L’eco”. Gli accurati e mai pedanti riferimenti
paesaggistici hanno di certo un legame stretto della poetessa con la sua terra
originaria, che in queste liriche viene affrescata talvolta in maniera
colorata, altre volte con un cromatismo sbiadito: “Vivo l’oggi e/ il passato è
già un magnete/ il paesello natio a cui si torna” (p. 22). Una
sorta di manifesto della poetica della donna è contenuto il “Parole in fuga” il
cui titolo sembrerebbe un rimando alla poetica avanguardistica di inizio secolo
del ‘900, in realtà qui Angela Caccia esplica il suo rapporto con la Parola:
“Parole parlanti le tue/ parole scritte in fuga// corrono scalze/ su frescure
di sabbia tersa” (p. 19). Il linguaggio è a tratti evocativo, a tratti
volutamente scarnificato e acuminato (“fruscio feroce”, p. 13; “ossario di
parole”, p. 14).
La natura ne esce come quel luogo che attornia l’uomo, ma che lo guarda di
sottecchi, quasi in maniera infingarda e la poetessa, dall’animo sensibile, ne
avverte un leggero timore, consapevole che è Essa che comanda tutte le nostre
esistenze. Ed è per questo che il fruscio è “feroce”, che si fa violento e
sconsiderato e che “il vento […] si spera [sia] amico” (p. 16) e il ciottolo è
“assetato di sale” (p. 17): sembra che la natura –anche quella inanimata- si
umanizzi e inveisca contro l’uomo. Se ci chiediamo perché, la poetessa non ci
illumina su questo e possiamo sentirci liberi nell’interpretare: perché l’uomo
ha sfruttato la natura? perché la contamina e la oltraggia? E’ una lettura
possibile.
Le introspezioni continue della poetessa si realizzano attorno a una
analisi che potremmo definire toponomastica degli spazi geografici: spesso vi è
il contrasto tra centro e periferia: “Vivo la mia periferia/ nell’insana
nostalgia del centro/ – dice il Cuore” (p. 17); “Poesia/ mistero e
maledizione// infermiera del pensare/ e ripensare// cammino verso il centro/ o
procedo in tondo …” (p. 26).
Una silloge di ampia caratura dove è la vasta gamma dei sentimenti umani ad
essere tracciati con pennellate che lasciano il segno: liriche cupe e
riflessive (“La morte/ sbuccia ogni giorno/ una scorza d’umano/ conia l’orfano/
la vedova// ma sventrata d’un figlio/ come si chiamerà la madre?”, p. 54),
poesie critiche nei confronti della società (“sconfessa il fasullo del mondo”,
p. 42; “un quotidiano che/ forgia uomini di pietra”, p. 62), ma estremamente
lucide, manifesto di una poetessa che ha molto da dire e che lo fa nel migliore
dei modi. C’è poi spazio per liriche dolorose pensate come commemorazione di
gravi calamità naturali quali il terremoto in Emilia e gli allagamenti sofferti
dalle Cinque Terre descritti come “una pioggia impietosa [che] ha tumulato la/
Liguria” (p. 71).
Questo libro ci fa viaggiare in terre verdi e profumate, ai bordi di mari,
ci fa sentire il rumore delle fronde degli ulivi e ci fa bagnare della guazza
delle felci. La poetessa ci accompagna mano nella mano e a piedi scalzi su
queste terre tutt’ora inviolate e dove la Natura manifesta ancora la sua
incorrotta potenza.
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