sabato 27 giugno 2015

Il mio contributo "a distanza" alla Kermesse di Fonte Avellana - Fara editore 26 - 28 giugno 2015


In questo tardo pomeriggio estivo dal sapore inconfondibile: col mio gatto, di nome Gatto, che si stravacca all’ombra del cespuglio di alloro, in un silenzio dove i suoni minimi della natura sono musica, mi fa buona compagnia un pensiero, ancora tutto da pensare. Il tempo del padre… ripeto piano il tema della kermesse, lo sussurro: due universi, al primo così asettico, gli dà senso e qualità il nome padre, lo sostanzia di un affetto così pieno eppure così inesorabilmente graffiato …

Dal tuo silenzio

Padre
oggi ti chiamo così come se gli anni che
conto dalla tua morte avessero consumato
ogni familiarità
e di te che mi sei radice e chioma
non mi rimanesse che qualche filamento.

Il tempo è un oceano inclemente
separa la battigia dall’orizzonte
un’onda da lontano rotola
a riva sciaborda e
a volte
li lega insieme
al rumore eterno del mare.

Tu la grande assenza
io il vuoto che riempivi
non sarà mai una lapide a dirmi dove sei
se dal tuo silenzio a questo foglio
un verso ci annoda ancora.

Sotto il gazebo, sul tavolino, accanto al posacenere ricolmo di cicche, un mazzo di carte. È quasi un automatismo il mio: inizio un solitario. Mio padre trascorreva ore con quel rompicapo. Ma all’ora prestabilita, la nostra passeggiata. Quando tardava, fingevo il solito starnuto e mi catapultavo sulle carte che schizzavano ovunque. Lui, vedendomi arrivare, sorrideva e cercava invano di salvare il suo castello facendosi scudo con le spalle.

Anche d’inverno il nostro appuntamento serale. Mingherlina, completamente immersa nella sua ombra, saltellavo di due passi per farne uno dei suoi, e parlavo parlavo parlavo… avevo bisogno di depositare nelle sue orecchie tutta la mia giornata perché avesse più senso. Zittivo solo in un tratto preciso: i platani proiettavano sulla strada ombre strane che risucchiavano quella già grande di mio padre. Era l’ora dei folletti, la mia mano si incollava praticamente alla sua. Giunti all’icona della Madonna greca col Bambinello, il pericolo era scampato.
– Ngelinù puoi riaprire gli occhi, mi diceva. A dire il vero non li chiudevo, li increspavo solo un pochino: la curiosità era più forte della paura.

L’oscurità e la retina di protezione sfumavano il quadro che risultava di un solo colore. Per quanto malridotta, quell’immagine era sempre in compagnia di un lumino troppo minuscolo per tanta luce (… un giorno o l’altro – mi dicevo - sgamerò l’angelo del lumino).
Rallentava il passo mio padre, toglieva il cappello dalla testa calva, poi fletteva lievemente il capo, il suo sguardo al quadro era come il lancio di un fiore. Mi inteneriva quello sguardo, era bambino come me. Sono strani e inconsci i meccanismi che scattano e orientano a una fede, ma so per certo da dove ha origine la mia: da un cappello.

Gatto ha smesso di sonnecchiare, si strofina alle mie gambe, è il suo rituale per chiedermi carezze. Non lo curo, il mio solitario non ammette disattenzioni, tanto meno intrusioni. Quanto è fastidioso l’amico coi suoi suggerimenti!...

Questo è un gioco a due – ti verrebbe da dirgli - io e le carte, per la tombolata torna più tardi. Mio padre non si scomponeva affatto, raccoglieva calmo le sue carte e le riponeva nel fodero. Il messaggio era chiaro: o te ne vai o … te ne vai.

Sento dei passi nel portico, ripongo anch’io le carte.
Un solitario è una tua precisa solitudine: una parte di te, quella indolente, segue il gioco, l’altra smette di sonnecchiare e s’incammina lontano, raccoglie una lacrima raccoglie un sorriso, non la puoi più fermare.