In questo tardo
pomeriggio estivo dal sapore inconfondibile: col mio gatto, di nome Gatto, che
si stravacca all’ombra del cespuglio di alloro, in un silenzio dove i suoni
minimi della natura sono musica, mi fa buona compagnia un pensiero, ancora
tutto da pensare. Il
tempo del padre… ripeto piano il tema della kermesse, lo sussurro: due
universi, al primo così asettico, gli dà senso e qualità il nome padre, lo
sostanzia di un affetto così pieno eppure così inesorabilmente graffiato …
Dal
tuo silenzio
Padre
oggi
ti chiamo così come se gli anni che
conto
dalla tua morte avessero consumato
ogni
familiarità
e
di te che mi sei radice e chioma
non
mi rimanesse che qualche filamento.
Il
tempo è un oceano inclemente
separa
la battigia dall’orizzonte
un’onda
da lontano rotola
a
riva sciaborda e
a
volte
li
lega insieme
al
rumore eterno del mare.
Tu
la grande assenza
io
il vuoto che riempivi
non
sarà mai una lapide a dirmi dove sei
se
dal tuo silenzio a questo foglio
un verso ci annoda
ancora.
Sotto il gazebo, sul
tavolino, accanto al posacenere ricolmo di cicche, un mazzo di carte. È quasi un automatismo il mio: inizio un solitario. Mio padre trascorreva
ore con quel rompicapo. Ma all’ora prestabilita, la nostra passeggiata. Quando
tardava, fingevo il solito starnuto e mi catapultavo sulle carte che
schizzavano ovunque. Lui, vedendomi arrivare, sorrideva e cercava invano di
salvare il suo castello facendosi scudo con le spalle.
Anche d’inverno il nostro
appuntamento serale. Mingherlina, completamente immersa nella sua ombra,
saltellavo di due passi per farne uno dei suoi, e parlavo parlavo parlavo…
avevo bisogno di depositare nelle sue orecchie tutta la mia giornata perché avesse
più senso. Zittivo solo in un tratto preciso: i platani proiettavano sulla
strada ombre strane che risucchiavano quella già grande di mio padre. Era l’ora
dei folletti, la mia mano si incollava praticamente alla sua. Giunti all’icona
della Madonna greca col Bambinello, il pericolo era scampato.
– Ngelinù puoi riaprire gli occhi, mi
diceva. A dire il vero non li chiudevo, li increspavo solo un pochino: la
curiosità era più forte della paura.
L’oscurità e la retina di
protezione sfumavano il quadro che risultava di un solo colore. Per quanto
malridotta, quell’immagine era sempre in compagnia di un lumino troppo
minuscolo per tanta luce (… un giorno o l’altro – mi dicevo - sgamerò
l’angelo del lumino).
Rallentava il passo mio
padre, toglieva il cappello dalla testa calva, poi fletteva
lievemente il capo, il suo sguardo al quadro era come il lancio di un fiore. Mi
inteneriva quello sguardo, era bambino come me. Sono strani e inconsci i
meccanismi che scattano e orientano a una fede, ma so per certo da dove ha
origine la mia: da un cappello.
Gatto ha smesso di
sonnecchiare, si strofina alle mie gambe, è il suo rituale per chiedermi
carezze. Non lo curo, il mio solitario non ammette disattenzioni, tanto meno
intrusioni. Quanto è fastidioso l’amico coi suoi suggerimenti!...
Questo è un gioco a due – ti verrebbe da dirgli - io e le carte, per la
tombolata torna più tardi. Mio padre non si scomponeva affatto,
raccoglieva calmo le sue carte e le riponeva nel fodero. Il messaggio era
chiaro: o te ne vai o … te ne vai.
Sento dei passi nel
portico, ripongo anch’io le carte.
Un solitario è una tua precisa
solitudine: una parte di te, quella indolente, segue il gioco,
l’altra smette di sonnecchiare e s’incammina lontano, raccoglie una
lacrima raccoglie un sorriso, non la puoi più fermare.