“DI LENTISSIMO AZZURRO – ANGELA CACCIA” – Nota di lettura di
Cipriano Gentilino
La raccolta Di Lentissimo azzurro pubblicata
da Campanotto Editore nel dicembre del 2024 si compone di 52 poesie con in
prefazione una introduzione dell’autrice che ci consegna la sua personale
visione e il suo rapporto con la poesia scrivendo:
Chi ama la poesia, sia nel ruolo di scrittore che di
lettore, compie una scelta su come stare al mondo, accettando di essere
manutenuto anche dalla dimensione poetica.
Un essere mantenuto che diventa chiaro nel suo significato in quella percezione di sospensione che crea la parola poetica di Angela Caccia. C’è come un respiro ampio che si distende nel tempo come il colore dell’azzurro che dà titolo alla sua raccolta. Di lentissimo azzurro è infatti un viaggio intimo e meditativo, un attraversamento della memoria, della natura, degli interrogativi che l’esistenza pone, tutto avvolto in un ritmo che accoglie pause e silenzi, lasciando spazio alla riflessione.
Fin dal titolo si avverte una tensione tra la delicatezza e la profondità, un colore che non esplode ma si espande lentamente, avvolgendo lo sguardo in una percezione rarefatta, quasi sospesa appunto. Qui la parola non si impone, non grida, ma lascia emergere il suo peso nel vuoto, nella misura esatta della sottrazione. L’azzurro diventa allora metafora della scrittura stessa: un gesto che si deposita con la pazienza delle cose che resistono al tempo, come un filo che lega il presente alla memoria, l’attimo all’eterno. L’uso sapiente del verso libero conferisce alla poesia di Caccia una musicalità propria, fatta di attese, di battiti impercettibili che suggeriscono una atmosfera emozionale che accoglie quella parola che qui è materia viva. La attraversa infatti la consapevolezza che ogni suono, ogni pausa, ogni omissione è parte del tessuto profondo della poesia e di questa poesia di Angela Caccia. Non c’è bisogno di ridondanze, di parole in eccesso: lo dimostra in Non ti servono tutte le vocali (XVII), componimento in cui l’essenzialità diventa cifra espressiva:“Non ti servono tutte le vocali / ché poesia è pane leggero – rosa / fermati in due sillabe di bellezza (…)” La lingua si spoglia, si riduce all’osso, cercando di afferrare il nucleo più autentico della parola poetica, la sua essenza originaria, dove tutto ciò che è superfluo cade lasciando solo ciò che conta.
Ma se il linguaggio è epurato, essenziale, non per questo risulta povero o arido. Al contrario, la poesia di Caccia si nutre di una densità emotiva che scava nel tempo, nella storia personale e collettiva, nel ricordo che si fa presenza. In Sarà servito a qualcosa leggere Omero? (I), il tempo assume una valenza esistenziale, non più solo un avanzare cronologico, ma un processo di trasformazione interiore: “Sarà servito / innamorarsi / dividere in due il peso di sé / modellarsi a vicenda / fino a fare del dubbio l’unico fronte di liberazione?” Il tempo, dunque, è mutamento, è crescita e perdita, è il tentativo di dare un senso alle esperienze che ci attraversano. E il ricordo si fa ancora più intenso nelle poesie che evocano la figura paterna, come in Da un nucleo appartato di parole (XIV), dove l’assenza diventa un vuoto incolmabile: “Di morte fa paura il dove / che non si conosce / e neanch’io saprei dove cercarti / che una lapide non mi basta. “Anche la madre appare con la delicatezza di una carezza evocata nel tempo, in Sto al caldo delle tue coperte (XXII), dove la dolcezza del ricordo si mescola all’accettazione della perdita: “È un tempo saggio il mio giardino di novembre / si spegne in pace nell’odore di stoppia bruciata e caldarroste / si spegne come te: pacificamente”.
La poesia di Caccia, però, non è solo ripiegamento interiore. Vi è anche una tensione verso il mondo, un’apertura alla realtà che si traduce in una parola capace di farsi testimonianza. In 26 febbraio 2023, naufragio a Steccato di Cutro (XII), il dramma dei migranti viene raccontato attraverso la negazione stessa della parola, l’impossibilità di dire l’indicibile:“La parola, quella vera, / si rifiutò di raccontare la mattanza / finanche il mare che divorò incubi / sogni / e la barchetta di carta / preferì dipingerla la morte di turchese. “Qui il mare diventa testimone silenzioso di una tragedia collettiva, mentre la poesia si arresta davanti all’orrore, consapevole della propria insufficienza. Allo stesso modo, in Cadavere di un indiano col braccio amputato (XXXIX), la denuncia sociale emerge con forza, mettendo in luce l’indifferenza del mondo di fronte al dolore altrui. La natura, in questo percorso, non è solo uno scenario ma è specchio dell’anima umana, del suo trascorrere e della sua inevitabile finitudine. Lo si avverte in Chi pensava di doverla scontare la gioventù?! (XV), dove la nostalgia si tinge di un velo di malinconia: “Presto o tardi saremo tutti Lee Masters / parleremo anche noi con la voce dei morti. “
E mentre la raccolta si avvicina alla sua conclusione,
la voce poetica assume un tono quasi filosofico, interrogandosi sul senso
dell’identità, sulla fragilità della parola e sul mistero dell’esistenza.
In Lo avverti il confine del tuo nome? (XLVIII), la
domanda diventa sussurro, riflessione sospesa: “Se non avessi un nome /
ti legherei alle vecchie canzoni / alla forma di un bacio / alla felicità che
ha sempre fame.” Ma è forse in Vocazione
a una solitudine aperta (XLVII) che il senso ultimo della
poesia di Caccia si rivela. La parola non è fine a sé stessa, non è puro
esercizio stilistico, ma seme gettato nel tempo: “La parola che pesa / si
trasforma in seme: la interri / e mentre semini / cresce il tuo desiderio di
crescere”. Qui la scrittura diventa atto generativo, strumento
di conoscenza, luogo in cui il silenzio si trasforma in senso. La poesia,
allora, è un ponte che collega il visibile all’invisibile, il presente alla
memoria, il vissuto all’eterno. In questa raccolta, Angela Caccia non offre
risposte, ma spalanca domande, invitando il lettore a sostare, a lasciarsi
attraversare dalle immagini e dai pensieri. La sua è una poesia che accoglie e
ferisce, che illumina e interroga, restituendo alla parola la sua funzione più
autentica: essere un luogo d’incontro tra il linguaggio e il mistero della
vita.
Angela Caccia ha pubblicato sei sillogi di poesie e contribuito a
diverse pubblicazioni online. Le sue opere sono state recensite in prestigiose
riviste tra cui Poesia.Corriere.it, Satura, Patria Letteratura, Rai Poesia, La
Poesia e lo Spirito, Limina Mundi, L’Osservatore Romano, e nelle rubriche di
Eugenio Lucrezi sulla Repubblica di Napoli e di Alba Donati sulla Repubblica di
Firenze. Le liriche raccolte nel presente volume hanno già ricevuto ampi
consensi nella versione inedita. A breve, sarà pubblicato un libro di sue
poesie in lingua rumena.
Cipriano
Gentilino