Credo
di aver letto quasi tutta, se non tutta, la produzione poetica di Angela Caccia
e così ho avuto modo di verificare la progressiva evoluzione artistica di una
poetessa che non finisce di stupire, prima fra tutti lei stessa, tanto che è
capitato che mi abbia chiesto, trepidante, se quanto scritto avesse o meno una
valenza. L’ha, certamente l’ha, perché l’approcciarsi a certe tematiche di
volta in volta è diverso, con una ricerca di un linguaggio che sia nel contempo
chiaro, ma anche pregno di sostanza, quasi a voler cercare nelle parole il
sunto dei concetti espressi.
Di
questa naturale incertezza è prova inconfutabile la prima poesia della raccolta
che ritengo opportuno riportare per intero al fine di meglio comprendere il mio
pensiero.
Sarà servito a qualcosa
leggere Omero farsi disturbare
il sonno da una mail
vivere
fino la ferita
e al grido sotterraneo uscire fuori dal calcolo?
Sarà servito
innamorarsi spartire
in due il peso di sé stessi
modellarsi uno all’altro
sino a fare
del dubbio l’unico fronte di liberazione?
… come Giacobbe e la sua anca rotta
poter lottare col proprio Angelo
per guadagnarsi un nome
Sarà servito raccogliersi in se stessa davanti a un foglio e
lasciar fluire una sequenza di parole, ciò che in quel momento si sente sorgere
spontaneamente, come una piccola polla d’acqua che si fa strada e a ogni passo
diventa sempre più grande, confidando solo sulla pendenza, e nel caso specifico
del poetare sulla forza intrinseca dei termini usati?
E la risposta sta nell’inconscio procedere della creatività: Scritta
a mano
di
lentissimo azzurro / coi tratti della cura e della calma / tra le pagine di un
libro / assopita come una Biancaneve. Oppure anche: Ovunque ho residenza
/
scrive per
me il sentimento del distacco /coltivo solo la rosa dell’esilio /…
Potrei dire
che mai, almeno finora, Angela Caccia ha scritto per comprendere se stessa, per
svelare se la sua arte sia tale, oppure solo un accostamento di termini, una
poesia spuria e non autentica.
Non so se è
riuscita ad avere una risposta certa, se abbia trovato almeno, se non la
certezza, la speranza di saper realizzare qualcosa di valore, ma è un dilemma
che è sempre innato nel momento in cui ci si sottopone agli occhi indagatori di
chi legge. Si resta in attesa timorosa di quel giudizio che costituisca la
miglior ricompensa della propria fatica.
Sono anch’io
un giudice, un opinionista soggetto alla valutazione altrui, pure in questo
caso, ma credo che l’importante sia essere del tutto sinceri nel riportare la
sintesi delle sensazioni e delle emozioni che la poesia può dare; ebbene,
giunto al termine della lettura, resta dentro una vibrazione che lentamente si
assopisce, una eco di cose buone che scende nelle valli dell’anima e che sazia
la sete di bellezza, la prova più convincente di qualsiasi voto o giudizio.
Angela Caccia ha pubblicato con
Fara: Il fruscio feroce degli ulivi (2013), Il tocco abarico del dubbio (2015), Accecate i cantori (2017) e L’alveare assopito (2022). Con Lietocolle Piccoli forse (2017).
Vari i contributi nel web, in particolare in Versante Ripido. È stata rencesita
in poesia.corriere.it, Satura, Patria Letteratura, RAI Poesia, Oubliette magazine, La Repubblica di Napoli nella rubrica
di Eugenio Lucrezi e La Repubblica di Firenze nella rubrica di Alba Donati.
Finalista al Morra 2022 con liriche contenute nel presente libro che, ancora inedito, ha vinto il primo posto al prestigioso Premio letterario Rhegium Julii, ha tre
superbe passioni: poesia, ceramica e scacchi.