CAMMINAMENTI
trincee o scavi, comunicazioni tra opere
fortificate e le immediate retrovie (… praticamente Poeti)
Camminamento n. 4 – Roberta Dapunt
(Uno scatto del fotografo Daniel Töchterle)
Rileggo ciclicamente i suoi testi: terrosi e implacabilmente religiosi, mi commuovono. Sempre.
L’ultimo, Sincope - anche questo, come i precedenti, pubblicato dalla Bianca di Einaudi –, prenotato in anticipo – atteso e sollecitato - si è rivelato una insanabile trafittura per quanta distanza dal sapore delle precedenti sillogi. Ne leggevo due pagine e, come offesa, lo riponevo. Non mi riusciva però di archiviarlo senza avvertire un minimo tradimento nei confronti dell’autrice: era frutto che non poteva cadere tanto lontano dall’albero amato. Così è stato: bisognava grattare la parola, latrice e sentinella di afflati prorompenti, consentirle di aprirsi nei suoi molteplici sensi perché svettasse ancora una volta il grande poeta: Sincope si è rivelato, a rilascio lento, un ennesimo innamoramento.
Con Celàn, dico che la poesia della Dapunt inclina ad ammutolire. A leggerla, bisogna fare i conti col silenzio che resta dopo l’ultimo verso -lì, dove si consuma tutta la distanza tra lettore-testo-autore, nel chiaroscuro di significati che sanno/possono vivere solo in sospensione.
Poeta è chi impara a non toccare le ali della farfalla e con lei s’invola.
E volo e ali e farfalla, tutto questo, ex imo corde, è Roberta Dapunt.
Caproni definiva il poeta un minatore, ma lo scrivere di poesia è anche un movimento, per così dire, strabico: uno sguardo gettato al di là di noi e, l’altro, a leggersi dentro. Ecco, allora, che il poetico si sostanzia in un punto di intersezione tra un’interiorità e un fuori, realtà entrambi.
Ma -per lo stesso Caproni - una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere, una stringa, m’ha sempre messo in sospetto, non mi è mai piaciuta. Non l’ho mai usata, nemmeno come lettore, non perché un bicchiere o una stringa siano importanti in sé più del cocchio o di altri dorati oggetti ma, appunto, perché sono oggetti quotidiani e nostri.
Tra poetico e impoetico, quale -se esiste- la soglia?
Bisognerebbe chiedersi prima cosa
è impoetico. O meglio, quali sono le qualità essenziali per avere un
valore poetico? Gli
oggetti quotidiani e
nostri, come dice Caproni, anche a me
succede la necessità
di una fisicità
conosciuta per esprimermi
in versi. Partendo
dalla condizione umana, cioè dalla totalità dell’esperienza dell’essere
umano. L’esistenza di me e di te, ma anche di noi insieme, che siamo capaci di
osservare noi stessi e gli altri. È qui che inizia la lingua, dall'osservare,
dal considerare con cura ciò che abbiamo di fronte.
Rivolgere lo sguardo per vedere,
posarlo attentamente sulle cose e sulle persone al fine di conoscere meglio,
di rendersi conto
di qualche cosa, di
rivelarne i particolari
e infine formulare
le considerazioni e i giudizi. La poesia deve raccontare questo, la sua
lingua è per sua natura una lingua poetica. Il contrario sarà ciò in cui lei
non si riconosce.
Sylvia Plath, nei Diari, parla della scrittura come di un rito religioso, una “rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere”. Se la lingua inizia dall’osservare al fine di conoscere meglio, e se conoscere è amare - e viceversa, in quel continuo sfociare l’uno nell’altro - non crede che scrivere di poesia, più di qualunque altro genere letterario, si sostanzi nell’uscire fuori da sé per un incontro? Leggo questa specifica tensione nei suoi versi …
La poesia non è la scelta di una lingua con la quale ci si può esprimere. La poesia è una necessità o non è credibile. È questo un primo comandamento, chiamiamolo pure così. Da questo è inevitabile il desiderio, così anche il bisogno dell’incontro. C’è sempre un tu o un voi di fronte al foglio di carta, per quanto sia importante la solitudine e l’introspezione. Ma potersi rivolgere a un lettore, a un possibile ascoltatore è forse l’unica salvezza per chi si esprime in versi. Tutto questo però succede tra i silenzi di una vita, diventa un vizio difficile da soddisfare e non verrà detto ad alta voce. La poesia ci fa diventare specialisti della tribolazione e professionisti dell’insoddisfazione, perché appunto responsabili dello sviluppo delle nostre potenzialità. Questo almeno succede a me, è la mia esperienza di un tentativo di racconto. Io ti racconto, ti dico, ti faccio sapere di me, che sono prima e ultima istanza in ogni verso. Non penso mai di educare scrivendo, succede invece che mi rieduco in continuazione. Ma anche questo succede nel silenzio.
Quello che dimentichiamo spesso, perché facciamo troppo rumore anche noi poeti che scriviamo poesia rumorosa per essere di oggi. Di oggi a tutti i costi, come se non lo fossimo in verità del corpo.
Forza risanatrice, la poesia è postura e stato d’animo, desiderio di un incontro e l’incontro stesso; il poeta è, all’unisono, ascolto e voce, il racconto di un accadere che lo stupisce e lo sorprende, ma La vita, qualche volta, si ritira come un ragno; e bisogna resistere alla cattiva ispirazione di raccogliere le conchiglie (da una lettera di Cristina Campo a Alejandra Pizarnik, del 22.2.1963)
Succede che parlo ad alta voce, dico i versi, le loro parole, una ad una mentre scrivo. È una disciplina che mi accompagna da molti anni ormai. Ho bisogno di sentire, di ascoltare la voce del verbo che scelgo, la cadenza del primo è fondamentale per l’altro che seguirà. Succede a volte, mentre sto dentro a una poesia, di sentire lo stomaco vibrare, e lì capisco che oltre c’è qualcosa di assoluto. Nel mio discorso alla lingua (Nauz,Il Ponte del Sale 2017) scrivo: [ ... ]
A noi carne è consentito provare turbamenti, gioie, soddisfazioni che durano secondi e qualche giorno. Poi finiscono, perché anche ci è stato dato di non provare contento sempre!
Per ciò che siamo davanti allo specchio può essere un bene oppure no, ma dirimpetto a un foglio bianco deve essere lo sprone, lo stimolo e l’incitamento per riempirlo. Il resto succede febbrile dentro la sagoma di un quaderno, sebbene fuori da qualche parte la fortezza in lettere che tu costruisci dentro con perizia, esiste già [... ].
Parlo di ciò che l’uomo può solamente percepire e intuire e però nella poesia, ha la possibilità di ancorare a parole. Dopodiché il silenzio, a me piace dirlo al plurale, il ritiro nei silenzi che non contano i minuti. Anche questa è una disciplina difficile, che va imparata.
La poesia è getto ma è anche scrittura e riscrittura. Cosa inevitabilmente deve perdere il verso in questo procedere per molature, e cosa e quanto conserva del suo dilucolo
Il getto succede, ma raramente rimane tale nelle mie scritture. Nella mia officina, le parole vanno ripetute. Dicendomi i versi mentre scrivo, l’atto della scrittura si trasforma in una litania. Cerco nella continua ripetizione dell’intero componimento, che sia anche solo per l’ultimo verso, di levigare e polire, fino ad arrivare ad un’armonia per me ideale tra la parola scritta e la mia voce. Difficile prova, ma se questo si realizza io sono contenta. Ciò implica anche perdere, che però in questo lavoro non equivale a una sconfitta, significa invece progredire, capire il momento della limitazione, fissare una misura ottimale alla lingua diminuendone il vocabolario. Decido così un tracciamento di confini. Non nella qualità ma nella quantità.
Roberta Dapunt è nata nel 1970 a Badia.
Pubblicazione in varie riviste letterarie e antologie.
Raccolte pubblicate:
- OscuraMente, (1993), la carezzata mela (1999), del perdono (2001)
- la terra più del paradiso (2008), Giulio Einaudi editore.
- Nauz. Gedichte und Bilder, in ladino con la traduzione in tedesco curata da Alma Vallazza (2012), editore Folio.
- le beatitudini della malattia (2013), Giulio Einaudi editore.
- dies mehr als Paradies, la terra più del paradiso, traduzione in tedesco curata da Versatorium e diretta da Peter Waterhouse (2016), editore Folio.
- Nel 2014 in occasione del festival ‹Wege durch da Land› Nordrhein-Westfalen è uscito per la casa editrice omonima il discorso di apertura ‹Rede an die Sprache, un discorso semplice›.
- Nel 2015 è stata presentata la prima esecuzione di Nauz, composizione scritta da Eduard Demetz.
- Nel 2016 è uscito il film NAUZ di Jochen Unterhofer e Florian Geiser, Ammirafilm.
- Nel 2017 CAR(D)O, un dialogo tra poesia, scultura e pittura (Lois Anvidalfarei, Gotthard Bonell), mostra nel Museo storico-culturale di Castel Tirolo. Nel catalogo il CD che presenta la sacra conversazione, in collaborazione con il compositore e violinista Marcello Fera.
- Nauz, versi ladini. Traduzione italiana dell’autrice (2017), Il Ponte del Sale editore
- Nel 2018, pubblicazione della raccolta sincope, Giulio Einaudi editore.
Con la raccolta sincope, vince il Premio Letterario Viareggio-Rèpaci nella sezione poesia 2018.
Nello stesso anno cura la pagina di poesia per I luoghi dell’infinito, il mensile di arte e itinerari culturali di Avvenire.
Nel 2019 è stata presentata la prima esecuzione assieme al CD Le beatitudini della malattia (Il Diapason Edizioni), composizione scritta da Rolando Lucchi.
E la prima esecuzione di Vërt tla bocia (il verde in bocca, Sincope), 7 Lieder per baritono e pianoforte, compositore Eduard Demetz.
Roberta Dapunt vive a Badia.
la mia confessione fedele
Curo i prati come il pavimento della mia casa,
guardo l’erba come il tappeto sul quale
allignano i figli e un tempo contento.
Non vi è obbligo di appartenenza.
Ogni filo d’erba è una spettanza,
il diritto per l’umiltà di un altro
che l’ha preceduto e che io ho falciato,
raccolto e scelto per necessità e dottrina.
Pulire i prati è levare loro i sassi e contarli,
come un atto di compassione
ad ogni riverenza che gli concedi.
È raccogliere terra sputata dal fondo e seminarla,
di nuovo, in segno di generosità verso essa.
È forse un lavoro ingrato e fermo al punto di partenza
ma è anche la mia confessione fedele,
la coscienza che mi riconosco addosso,
di essere qui anche per questo.
la terra più del paradiso, Einaudi 2008
Che torni pure il sole di Pasqua.
Per risorgere il Cristo
dentro il mio spirito inconfidente.
Da anni sta appeso alla parete,
grande crocifisso,
le sue stigmate profumano di resina.
Ostinato Tommaso, non credi?
Eppure spesso lo tocco
proponendomi di toccarlo ancora più da vicino,
sì che ogni volta mi sorprendo in alleanza
con l’odore del sangue pitturato al suo costato.
Divina solitudine sulla mia parete,
cederei la penna per un giorno di fede.
la terra più del paradiso, Einaudi 2008
Come scrivere altro, altre immagini
se quieta sera mi raccoglie sempre uguale,
che le storie tristemente volute e contorte
rendono simili i versi al dare saggio della propria bravura.
Niente di tutto ciò mi lega, che intorno al corpo
ho intera l’umana condizione, colei che si addormenta
per stanchezza e spessore di mano.
Sottratta vita a ogni profanazione, per sacro sentire
l’odore indubitabile delle mani d’inverno.
È odore di stalla, di latte e di urina,
di fieni concilianti al freddo e nel mite lume
raccogliere in uno sguardo l’ordine in un fienile.
Ciò è per me intelletto, facoltà di intuire il rapporto
nella pratica del rigore. Nulla dipende dai nostri umori soltanto,
niente dalle nostre possibilità creative.
A cosa serve sapere e compiacersi del sapere
se non per distinguere un filo d’erba da un altro.
le beatitudini della mente, Einaudi 2013
Una foglia e l’altra. Un’altra di diverso colore
e nelle mani dalla carne sfiorita le tieni inespresse,
costrette solamente alla loro bellezza.
Mi sorridi e d’intorno sei sospensione del tempo,
un filo d’erba che ignora il suo prato.
Incantevole dono il tuo.
le beatitudini della mente, Einaudi 2013
Che tu possa tenere strette nella mente
le orazioni quotidiane, i vespri e le memorie.
Che in ogni spazio del tuo cuore siano concubini
i misteri dei rosari e le canzoni, di quando
fuori tra le erbe a seccare cantavi.
Ho pensato in quella prima estate:
fossi io la fede sceglierei te come fortezza.
le beatitudini della mente, Einaudi 2013
Tan ri tëmp te chësc altonn nia da mudé,
zënza palsa la plöia. Mia orela cürta danter ciarü y frëit,
rodi iö cër ćiasa ia, sciöche a spazier te raiun forest,
por tan che sëmena oramai pestada fora,
scomöi i vari śëgn plö co mai.
Vëgneste tö, val’un, incö a me ciafè?
Te chësc lüch co ghira sciöche unica compagna la fedelté.
Insciö sunsi sentada sön banch dan porta, nagules timples.
Tres sunsi iö ćiamò chilò, sciöche te n ofize d’onur.
Mi pëgn por chësc podest, la surité.
È difficile tempo in questo autunno che non si cambia,
senza riposo la pioggia. Mia ricreazione tra nebbia e freddo,
mi muovo intorno a casa, come a passeggio su terra estranea,
e per quanto sia questo un sentiero battuto
rompe il passo ora più che mai.
Vieni tu, qualcuno, oggi a farmi visita?
In questo maso che esige la fedeltà come unica compagna.
Così sto seduta davanti alla porta, gli umidi garofani.
Qui sono, ancora e sempre in una mansione d’onore.
Ed è il pegno per questo pergamo la solitudine.
Nauz, Il Ponte del Sale 2017
delle solitudini I
Eppure lo vedo, resistente rimanermi accanto,
il delirio di personalità è una catena di montaggio
tra la condizione di chi è solo e il bisogno di comunicazione.
È voce persa la mia, che si trasforma in emozione
anche quando non è richiesta.
Curato ciò che appare e lì dietro le incisioni nel volto,
nell’universo dei discorsi e delle parole scritte
la solitudine non è isolamento, non è isolamento la solitudine,
che potrà anche essere espansione del verso
ma rimane capitolazione dello spirito.
sincope, Einaudi 2018
vultus
Considera questa faccia tu che mi stai davanti, valutami.
Percorri questo luogo, presentami i tuoi strumenti
e misura la mia espressione.
Prendi la larghezza, unisci la sua lunghezza alla profondità
dei miei occhi, del loro sguardo fin dove finisce.
Misurami la bocca, aprimi le labbra e prova a guardare dentro,
esplorami. Nelle profondità della parola e della mia lingua,
in quella che tu non potrai capire.
Disegnami una carta addosso, fai di me la tua topografia
e calcami, giudicami ogni volta che pensi sia giusto farlo. Riproponimi.
Misurami l’udito, parlagli, digli cosa pensi, chi io sia.
Consacra per questo attimo il tuo giudizio alla mia pelle,
poiché vedi? Io ti do tutto ciò che sono, la mia nudità in questo volto.
Unisciti ai miei capelli, porgimi la tua vanità e intrecciala al mio essere,
questa mente che tu non vedi, questo pensiero che tu non senti,
la mia lingua che tu non ascolti. Ciò che io vedo e che tu non guardi,
e così il mio ascolto che tu non odi.
Del giorno e mentre dormo, sarai tu la mia consapevolezza,
perché tu mi venga incontro, che tu mi ami, che tu mi baci,
che tu mi guardi. Che tu mi guardi.
sincope, Einaudi 2018
sincope I
Lì in fondo ad ogni ultimo verso
improvvisa è la perdita di coscienza.
Lettore, io emetto suoni su tempi deboli,
che siano essi di giorni riposti o demenza,
così l’alcol, così l’amore e la morte.
Sono queste le mie verità,
lasciano le visioni accese persino al gelo notturno.
Che nella notte, io le rumino.
ma nel giorno, io di loro mi alimento.
sincope, Einaudi 2018
della lingua I
oppure dei versi troppo lunghi
Troppa vegetazione sul terreno dalle molte lingue.
Ho il verde in bocca che mi crea palude, accresce i sentimenti,
l’umido pensare e la lingua, spinge in alto un velario di mosche.
E sotto, lì sotto alla lingua, mio vero teatro, si svolgono le parole. Troppe parole.
Sconnesse abitudini le paranoie. Mi succede in bocca la confusione mentale.
Fuori le risate, a volte il pianto, durano un solo giorno.
sincope, Einaudi 2018