La poesia di Angela Caccia si concede
raramente al grazioso, al bel verso d’effetto, pur obbedendo sempre alla musica
che il succedersi dei versi deve produrre, e si tratta di una musica che trova
il proprio ritmo anche dalle pause improvvise e dagli improvvisi silenzi che
seguono a un interrogativo senza risposta, o a una risposta intuita ma lasciata
in sospeso, per pudore di cadere nel consolatorio cui l’esperienza della vita,
coniugata a un certo stoicismo, non consente di abbandonarsi. La sua poesia è
un mettersi a nudo ma non senza pudore, dove lo scetticismo e la speranza si
alternano e si negano continuamente l’una all’altra.
Poesia vera, apparentemente scabra,
apparentemente non cercata, che nell’inesausto scavare dentro di sé raggiunge
spesso il sublime, specie quando nello scavare approda a scoperte che
nascondono un brivido di strazio (e nello strazio il rintocco è profondo) come,
tanto per citarne qualcuno, a caso, in “ognuno
a suo modo ha trattenuto in sé/la leggenda di una sfumata primavera”, oppure
in “come assestare questo piano/inclinato,
si scivola lenti e tutti/ad una morte sempre più anonima”, o ancora “e invece/lanciato il
programma/l’inesorabile è in atto”. Lo strazio a volte è prolungato e
intenso, specie quando s’ammanta di rammarico: “i sogni, solo nuvole che s’azzuffano/- la realtà è da sempre dissidente
-/ma non sarà un sogno a dilaniarti, /piuttosto il non crederci fino in fondo”.
A volte il desiderio d’inseguire il sogno o
l’avventura affiora, ma è solo un attimo breve di stordimento, o meglio un
tentativo, una prova, un “tastare il terreno” verso una fuga più immaginata che
desiderata, e che in ogni caso viene subito negata giacché riemerge, ineludibile,
la necessità dell’approdo alla quotidianità e ai doveri consueti, tanto più
necessari alla voce sognante e poetante perché è solo nella disciplina del
“mettere ordine” tra gli inciampi e gli sfaldamenti dell’esistenza che può
essere ricomposto quell’equilibrio tra sé e la vita, il solo che consenta di
guardare quest’ultima limpidamente, di sublimarla in canto e quindi di sopportarne
i limiti e le delusioni infinite. Per cui
la necessità di “castigarsi/a uno sguardo che riduca la rosa/ad essere bella/e
nulla più/non smorza la nostalgia dei treni/non sfiata un respiro compresso… “.
In quest’equilibrio sottile tra impulso a veleggiare nell’oltre sè ed esigenza
di mantenere invece saldo il contatto col sé di ogni giorno si situa, ma
ovviamente declinandosi in mille sfaccettature, la poesia di Angela. Ce lo dice
chiaramente in questa lirica, dove la sua musica risuona vivamente di quel
tocco di strazio che dicevo prima: “Come nave al largo ti guarderò sparire/col
tuo minimo di equipaggiamento/… ti avessi dato la mia mappa dei venti! /Ma
crescere/è l’avventura di solitudini in mare aperto”.
Dionisio di Francescantonio