Fare
poesia riguarda la volontà di ricercare una visione alternativa, dare uno
sguardo altro al mondo per poterlo indagare nelle pieghe più nascoste e
scoprirne un senso più pregnante che ai più, assorbiti dalle convenzioni della
quotidianità, irrimediabilmente sfugge. Tale processo, fin dalle origini della
parola poetica (si pensi a Omero - nomen omen), ha sempre avuto forte attinenza
con l’accecamento, inteso metaforicamente come rinuncia all’ordinarietà della
vista, con tutte le sue implicazioni sensoriali, per poter accedere ad una nuova
forma di visione, che spesso procede per successiva rarefazione attraverso
gradi intermedi di oscurità (e si pensi ancora a tutta l’esperienza di poesia
mistica ed in particolare a Juan de La Cruz). La parola come strumento
(verrebbe da dire medium) atto a creare il varco necessario per potersi
riscattare come uomini.
A
questo si riferisce espressamente Angela Caccia nel suo ultimo lavoro, fin dal
titolo (il cantore va accecato perché possa ambire alla propria missione di
interprete o almeno partecipe del senso delle cose) e lo ribadisce quando parla
di “un non fidarsi più degli occhi e frugare oltre”, come esplicita
dichiarazione di poetica. Una silloge, quella di cui si parla, che assume la
forma del poemetto compatto che si struttura per livelli di approfondimento
successivi di poesia in poesia, come progressivi stadi dall’oscurità alla luce
compiuta, tanto da configurare la silloge come corpus omogeneo in cui ci si
cimenta nel tentativo di circoscrivere e contestualizzare l’ambito in cui è
tenuta ad operare la poesia.
Il tutto senza inutili concettualismi, anzi
mantenendo sempre alta l’asta dell’espressività poetica e dell’ascendente
lirico, perché è la poesia l’unica strada possibile per delimitare “un
perimetro di bene”, “circoscrivere la mancanza” ed affrontare la cogenza
del vivere che per l’autrice assume la forma del doversi confrontare con
l’avanzare degli anni, vedersi trasformata da figlia in madre per la propria
stessa madre in un capovolgimento paradossale di ruoli e di gesti, salvare dall’erosione
del tempo l’indispensabile del ricordo. “Nel tempo / la mappa di un tesoro /
emerge agli occhi al cuore”, come per nonna Grazia o per il fisarmonicista
rimpatriato dalla Germania, altrettanti protagonisti di testi che s’imprimono
nell’immaginario del lettore.
Meglio
di qualunque altro è però il testo “Torno qui” (pag.17) per riuscita
stilistica e semantica a delineare il modo di procedere, in senso etico ed
estetico, dell’autrice: la necessità di “schizzare un […] nudo sul foglio” perché
“poesia / è quanto – d’amore / o dei suoi fallimenti – passa dalle mani”, fino
al risultato di sapersi restituire al proprio sé più autentico, perché “si
può tornare alberi”. Nulla sa curare, o per lo meno tracciare una strada
praticabile, come la poesia, perché un verso vero è “quel moto perpetuo che
risuona dentro / anche quando la voce è finita”, è l’argine da contrapporre
ad un “silenzio pietra”, pur nella consapevolezza di dover affrontare “la
solitudine / della prima orma”. E come la poesia è il ricordo, in questo
con una coloritura di matrice leopardiana, la riserva da cui attingere nuova
linfa, “ricordo faro” che fa risalire dal fondale di buio, che richiede
di foderare “la memoria di ciò / che dovrà valere per sempre”.
Vale
la pena segnalare il procedimento stilistico, ben riuscito, che prevede
l’isolamento a piè pagina di brevi strofe, evidenziate dal corsivo, che anziché
essere commento alla poesia vera e propria nella stessa pagina, divengono
componimenti autonomi e pregnanti con una icasticità aforistica, concentrato di
senso. Si veda ad esempio: “Punto vuoto / sacro che / nessuno profana / in
quel misterioso / acquietarsi degli estremi”, oppure “Dentro / il
tremito della foglia / e sopravvivergli, / tornare al fondo / a sé stessi / e
scriverne” o ancora “Siamo bocche / indulgenti a un sorriso che non
arriva”. Con un procedimento simile nella poesia “Di rabbia” (pag.15)
accade che il colpo di grazia, da intendere come la riuscita fattuale della
poesia, con cui creare il legame necessario con il lettore che si appropria dei
versi, sia possibile grazie all’ultima strofa, interamente fra parentesi, come
una sorta di teatrale fuori campo, a parte: “(scusa le mie parole a capo /
tra due solitudini / resta un verso / la chiacchiera migliore)”. Dichiarazione
quest’ultima che bene trova conferma nello spirito complessivo che permea i
versi dell’autrice, mai aulici o profetici, diversamente da quanto l’allusione
nel titolo potrebbe invece far intendere, ma all’insegna di una poesia – oserei
dire religiosamente laica - che cerca sempre la comunicazione e la condivisione
con il lettore, senza però mai cadere nella tentazione di un prosastico di
comodo, semplificatorio. Tutto va ridotto all’osso (o con le parole
dell’autrice “si impara a reggere il nome / senza l’ausilio di aggettivi
accanto”) ma in ogni caso tutto è sempre finalizzato ad un dialogo che
riesca a superare il confine ristretto della pagina, la misura breve del verso
per aprirsi al mondo, agli altri, ben consapevoli che “chi si teme poeta / ha
un canestro di pietà e li raccoglie”.
Fabrizio Bregoli