venerdì 8 dicembre 2017

La misura breve del verso per aprirsi al mondo - Fabrizio Bregoli




Fare poesia riguarda la volontà di ricercare una visione alternativa, dare uno sguardo altro al mondo per poterlo indagare nelle pieghe più nascoste e scoprirne un senso più pregnante che ai più, assorbiti dalle convenzioni della quotidianità, irrimediabilmente sfugge. Tale processo, fin dalle origini della parola poetica (si pensi a Omero - nomen omen), ha sempre avuto forte attinenza con l’accecamento, inteso metaforicamente come rinuncia all’ordinarietà della vista, con tutte le sue implicazioni sensoriali, per poter accedere ad una nuova forma di visione, che spesso procede per successiva rarefazione attraverso gradi intermedi di oscurità (e si pensi ancora a tutta l’esperienza di poesia mistica ed in particolare a Juan de La Cruz). La parola come strumento (verrebbe da dire medium) atto a creare il varco necessario per potersi riscattare come uomini.

A questo si riferisce espressamente Angela Caccia nel suo ultimo lavoro, fin dal titolo (il cantore va accecato perché possa ambire alla propria missione di interprete o almeno partecipe del senso delle cose) e lo ribadisce quando parla di “un non fidarsi più degli occhi e frugare oltre”, come esplicita dichiarazione di poetica. Una silloge, quella di cui si parla, che assume la forma del poemetto compatto che si struttura per livelli di approfondimento successivi di poesia in poesia, come progressivi stadi dall’oscurità alla luce compiuta, tanto da configurare la silloge come corpus omogeneo in cui ci si cimenta nel tentativo di circoscrivere e contestualizzare l’ambito in cui è tenuta ad operare la poesia.

 Il tutto senza inutili concettualismi, anzi mantenendo sempre alta l’asta dell’espressività poetica e dell’ascendente lirico, perché è la poesia l’unica strada possibile per delimitare “un perimetro di bene”, “circoscrivere la mancanza” ed affrontare la cogenza del vivere che per l’autrice assume la forma del doversi confrontare con l’avanzare degli anni, vedersi trasformata da figlia in madre per la propria stessa madre in un capovolgimento paradossale di ruoli e di gesti, salvare dall’erosione del tempo l’indispensabile del ricordo. “Nel tempo / la mappa di un tesoro / emerge agli occhi al cuore”, come per nonna Grazia o per il fisarmonicista rimpatriato dalla Germania, altrettanti protagonisti di testi che s’imprimono nell’immaginario del lettore.

Meglio di qualunque altro è però il testo “Torno qui” (pag.17) per riuscita stilistica e semantica a delineare il modo di procedere, in senso etico ed estetico, dell’autrice: la necessità di “schizzare un […] nudo sul foglio” perché “poesia / è quanto – d’amore / o dei suoi fallimenti – passa dalle mani”, fino al risultato di sapersi restituire al proprio sé più autentico, perché “si può tornare alberi”. Nulla sa curare, o per lo meno tracciare una strada praticabile, come la poesia, perché un verso vero è “quel moto perpetuo che risuona dentro / anche quando la voce è finita”, è l’argine da contrapporre ad un “silenzio pietra”, pur nella consapevolezza di dover affrontare “la solitudine / della prima orma”. E come la poesia è il ricordo, in questo con una coloritura di matrice leopardiana, la riserva da cui attingere nuova linfa, “ricordo faro” che fa risalire dal fondale di buio, che richiede di foderare “la memoria di ciò / che dovrà valere per sempre”.
Vale la pena segnalare il procedimento stilistico, ben riuscito, che prevede l’isolamento a piè pagina di brevi strofe, evidenziate dal corsivo, che anziché essere commento alla poesia vera e propria nella stessa pagina, divengono componimenti autonomi e pregnanti con una icasticità aforistica, concentrato di senso. Si veda ad esempio: “Punto vuoto / sacro che / nessuno profana / in quel misterioso / acquietarsi degli estremi”, oppure “Dentro / il tremito della foglia / e sopravvivergli, / tornare al fondo / a sé stessi / e scriverne” o ancora “Siamo bocche / indulgenti a un sorriso che non arriva”. Con un procedimento simile nella poesia “Di rabbia” (pag.15) accade che il colpo di grazia, da intendere come la riuscita fattuale della poesia, con cui creare il legame necessario con il lettore che si appropria dei versi, sia possibile grazie all’ultima strofa, interamente fra parentesi, come una sorta di teatrale fuori campo, a parte: “(scusa le mie parole a capo / tra due solitudini / resta un verso / la chiacchiera migliore)”. Dichiarazione quest’ultima che bene trova conferma nello spirito complessivo che permea i versi dell’autrice, mai aulici o profetici, diversamente da quanto l’allusione nel titolo potrebbe invece far intendere, ma all’insegna di una poesia – oserei dire religiosamente laica - che cerca sempre la comunicazione e la condivisione con il lettore, senza però mai cadere nella tentazione di un prosastico di comodo, semplificatorio. Tutto va ridotto all’osso (o con le parole dell’autrice “si impara a reggere il nome / senza l’ausilio di aggettivi accanto”) ma in ogni caso tutto è sempre finalizzato ad un dialogo che riesca a superare il confine ristretto della pagina, la misura breve del verso per aprirsi al mondo, agli altri, ben consapevoli che “chi si teme poeta / ha un canestro di pietà e li raccoglie”.
Fabrizio Bregoli