È come se lanciassimo qualcosa di noi -scardinato dalla nostra struttura
che ci identifica, lontano da un linguaggio comune convenzionale- oltre noi:
sarà questo un buon verso. Non cade, non scivola, ma siamo noi a lanciarlo in
un immaginario oltre, perché viva di vita propria; una parte che ci appartiene
ma che è giusto se ne differenzi per quel suo dire e raccontare aldilà dell’io
che l’ha generato.
È il gusto di un momento di grazia: in una lingua impopolare, come
inesplorata, un fiato d’anima -o chi per lei- nell’attimo in cui è stritolata o avvolta da braccia possenti.
Una considerazione che mi ha suggerito la lettura di questa BELLA
silloge di Angela Angiuli, Storie di un
tempo minore, edito dalla Fara di Alessandro Ramberti. Il titolo, a primo
acchito, spiazza un po’, ma tutto si gioca su quell’aggettivo, minore, che -forse … probabilmente… -
non indica qualcosa di inferiore ma di subordinato, non di marginale ma di
giovane, sorgivo.
Sul retro della copertina, sette righe dell’autrice spiegano il motivo
e l’ispirazione di questi versi succosi: un prosimetro
“Questo libro è stato scritto
per il dolore di molti e per la vita che in tutti continua a circolare e a
sporgerci in avanti, nonostante tutto. È stato scritto in dialogo d’intimo
silenzio con Mino, fratello minore, che a 37 anni ha lasciato questa vita per
l’Altra. Continuerà ad essere scritto in tutti coloro che leggendolo troveranno
voce per tutto quello che in noi non ha suono”.
Ma, da qui, a desumere che si tratti di pagine addolorate dolenti, di
quelle che ti portano, insieme all’autore, in un baratro, si sbaglia. Mai, come
in questo caso, così valide le parole del filosofo ginevrino Henri Frédéric
Amiel
“La poesia è liberazione,
perché è una forma di libertà. Lungi dall’essere un’emozione, essa è lo
specchio di un’emozione; è al di fuori e al di sopra, tranquilla e serena. Per
cantare una sofferenza, bisogna esser già, se non guariti di questa sofferenza,
almeno convalescenti. Il canto è sintomo di equilibrio; è una vittoria sul
turbamento, è la ripresa delle forze.
E il canto dell’Angiuli ha un che di vittorioso: il dolore trova nel
verso una casa, tra le tante, che fanno villaggio e forse l’anima:
A Mino (pag. 31)
Mio fratello è un tramonto di
rose
a cui ha mangiato le spine
uno stormo di uccelli di cui ha
preso la direzione
e vola vola e guida l’avanzata
delle stelle sul mare
che tanto ha amato fino a
traboccare.
voleva cavalcare le onde -lui-
come un puledro,
ci è saltato sopra con un salto
gentile
troppo alto per capire, è
arrivato fino alle sirene,
ha avuto un bell’ardire.
Veleggia ancora lui dalla
spiaggia,
ha mangiato la sua morte, ne ha
trovato l’ormeggio
e il coraggio di dire -si-
ad un mondo nuovo che albeggia.
E ancora da pag. 24
I suicidi sono animali
interessanti
hanno il becco di un picchio
con cui rompere la scorza della
vita
mangiano ossa spellate dalla
consunzione
quotidiana
le bucce trovano gustose e pare
che gettino il frutto.
Ma io so che hanno la vista
lunga
più lunga del desiderio, loro
lo sanno attraversare
tarlare il creato fino in fondo
perché il loro frutto non è più
qui
ha allungato i rami nel
giardino del Vicino,
e loro -lì- se lo vanno a
prendere.
La delicatezza di questi versi su un tema che raggela, il tutto “maneggiato”
con dita di vento, sottile profumato: parole che non condannano non assolvono
-e come potrebbero?... – si limitano a intravedere il giardino del Vicino che sa come prendersi ancora -e per sempre-
cura di quei rami che hanno oltrepassato la staccionata.
Affascina in questi versi, in ogni pagina, una fede grande sincera
spensierata perché, già da tempo, meditata e sofferta e, quindi, consolidata. E
come ogni poesia di fede che si rispetti, di fatto, non parla -né può parlare-
di morte, ma solo di resurrezioni.
La poesia è e sarà sempre intraducibile,
resterà “regionale” anche se di tanto in tanto tenderà verso altre fonti
d’ispirazione – così scrive Harry Martinson, poeta e
scrittore svedese, Nobel per la letteratura nel 1974.
Forse -oso-
la poesia vera è anche incommentabile: ogni lirica un viaggio, compiuto
seguendo un tracciato preciso che ha escluso altre strade; occhi che hanno
conservato e raccontato quei paesaggi e non altri; a chiosare un buon verso si
rischia di togliere o aggiungere una foglia ad un albero, di suo, già perfetto.
Da pag. 41
Scrivo fragile
sono un popolo senza storia
-tracce di mosca- tarli di carta.
Scrivo a matita per il bambino che in me
aspetta il semplice
linee storte o oblique per tracciare la Speranza
che
fugge ogni misura