dal Blog di Letteratura Alla volta di Leucade
Ho già avuto il piacere di respirare il profumo intricante e suasivo dei versi di Angela Caccia e già avevo posato l’attenzione sul suo dire nuovo, originale, ora apodittico e conclusivo, ora espanso e narrativo, insomma vario e articolato, atto a soddisfare le richieste di un’anima zeppa di storie e vicende da mutare in poesia: memorie, sensazioni, emozioni, riflessioni, contaminazioni, indecisioni, coscienza dell’umana esilità, visione di un amore che si abbevera al secchio dell’esistere per farsi immensità, infinitezza sulla futilità dell’attimo. Ma si sa quanto sia difficile questa declinazione. La poesia richiede immagini fresche e cristalline, combinazioni sintagmatiche che colpiscano e scuotano il lettore per la loro incisività; per il loro effetto trainante nel lungo cammino tra realtà e verità. E qui tutto questo c’è; esistono le fresche ed oscillanti acque di un ruscello che cercano il mare nel loro variegato cammino fra colline e pianure, fra inceppi, anche, che sembrano interromperne o ostacolarne il flusso. Come in un poema che non sempre scivola leggero e eufonicamente compatto; non sempre su vette di alta tonalità; se così fosse non si apprezzerebbe il Bello. Un testo appetitoso che chiama all’attenzione, all’educazione del silenzio, alla concentrazione, alla riflessione, al gusto della Bellezza che chiede al poeta simbiotiche fusioni fra significati e significanti, fra vertigini intime e contenitori linguistici. E così mi ero espresso a proposito di una mia recensione a un suo testo:“… Una verbalità di intrecci secchi e apodittici che si sfuma in una mèsse di parole pronte a fare del dubbio una verità di suoni e di radici in un sogno che neppure il giorno, con tutta la sua luce, riesce a rendere vero; a distoglierlo da una notte che incombe dato che la morte è privilegio per chi vive:
Ho già avuto il piacere di respirare il profumo intricante e suasivo dei versi di Angela Caccia e già avevo posato l’attenzione sul suo dire nuovo, originale, ora apodittico e conclusivo, ora espanso e narrativo, insomma vario e articolato, atto a soddisfare le richieste di un’anima zeppa di storie e vicende da mutare in poesia: memorie, sensazioni, emozioni, riflessioni, contaminazioni, indecisioni, coscienza dell’umana esilità, visione di un amore che si abbevera al secchio dell’esistere per farsi immensità, infinitezza sulla futilità dell’attimo. Ma si sa quanto sia difficile questa declinazione. La poesia richiede immagini fresche e cristalline, combinazioni sintagmatiche che colpiscano e scuotano il lettore per la loro incisività; per il loro effetto trainante nel lungo cammino tra realtà e verità. E qui tutto questo c’è; esistono le fresche ed oscillanti acque di un ruscello che cercano il mare nel loro variegato cammino fra colline e pianure, fra inceppi, anche, che sembrano interromperne o ostacolarne il flusso. Come in un poema che non sempre scivola leggero e eufonicamente compatto; non sempre su vette di alta tonalità; se così fosse non si apprezzerebbe il Bello. Un testo appetitoso che chiama all’attenzione, all’educazione del silenzio, alla concentrazione, alla riflessione, al gusto della Bellezza che chiede al poeta simbiotiche fusioni fra significati e significanti, fra vertigini intime e contenitori linguistici. E così mi ero espresso a proposito di una mia recensione a un suo testo:“… Una verbalità di intrecci secchi e apodittici che si sfuma in una mèsse di parole pronte a fare del dubbio una verità di suoni e di radici in un sogno che neppure il giorno, con tutta la sua luce, riesce a rendere vero; a distoglierlo da una notte che incombe dato che la morte è privilegio per chi vive:
Laghi castani
appannati da un fondale
che la sabbia sconvolge
atolli
dove il mio amarti
ha perso le chiavi (Per i tuoi occhi),
Linguismo definito, risolutivo, dove il verbo, da solo, fa da verso tanta è
la sua soluzione, la sua profondità, la sua essenza traslata, il suo potere
iperbolico nella magra riflessione dell’esserci.
Ed è così che si fanno avanti i dubbi, e le incertezze del nostro
vivere. Le insicurezze che tanto inquietano il percorso esistenziale della
Caccia. Per questo il suo “Poema” si fa fortemente umano, carico di quei tanti
perché che non trovano soluzione...” (N. Pardini: recensione a Angela Caccia. Il
tocco abarico del dubbio).
Credo che sia proprio il caso di ricorrere ad una affermazione di Pavese
per sottolineare la continuità espositiva, il filo rosso, il leitmotiv che
fa da copyright nella poetica della Caccia: inquietudini che si riverberano in un canto“splendidamente monotono”, come sapeva dire, da par suo, Cesare Pavese,
della poesia. Una monotonia che fa da carta d’identità, da marchio di fabbrica
nella ricerca attenta, vissuta, meditata, sofferta e fattiva di una parola che
vada oltre il senso, oltre l’etimo, per agguantare quella luce che abbagli il
dubbio; sì, il dubbio, quel patema del forse, del può darsi, che morde lo
stomaco e ci rende vulnerabili di fronte al sapere. Una parola sempre
accanto, vicina, disponibile ma ardita, intrepida, svincolata, di fattura umana
e oltre, della cui compagnia la Caccia non può fare assolutamente a meno,
dacché di essa si ciba; è essa che la conduce sulla strada della possibilità,
verso un difficile approdo per una navigazione in mari folti di tenebra e di
mistero. E credo che il piatto forte uscito dalla
cucina di Angela sia proprio quello della grammatica poetica. Sì, a volte si
incontrano poeti che si esprimono con una metaforicità vellutata e convincente.
Ma qui la cosa è ben altra: la parola si abbandona generosa, superba e ardita a
incastri etimo-sonori di alta valenza creativa. La parola, sì, quel mezzo
umano, prettamente umano, che non di rado non è sufficiente a ricoprire gli
abbrivi emotivi di un’anima tutta volta a dire di sé, ma soprattutto a colmare
quella divergenza che c’è fra terra e cielo. È così che il verbo si arrotonda,
si smorza, si sforza, si dilata, si contorce, ed azzarda mete di difficile
ancoraggio:
il cielo brucia più forte dell’inferno
e amarci ora sarà immunizzarci
da tutto e per sempre
(fosse tua la perdita, o mia, mi abituo
a declinare la parola morte, denominatore
che non fa sconti a chi resta)
non chiedermi il perché
di questi adombramenti
il vento – a volte – ha carezze tristi.
Inferno, perdita, morte, sconti, perché, adombramenti, carezze tristi.
Tante riflessioni sul giorno e la notte, sulla vita e la morte, su eros e
thanatos. Non è che la vita sia poi quella stretta circonferenza in cui ci
dibattiamo per trovare uscite da perimetri invalicabili? L’amore stesso,
sentimento dei sentimenti, risente di questa pressione del forse. E si fa
turbinio di inquiete risonanze che chiedono certezze; allora non resta che
azzardare ipotesi, avventure verso mondi altri. Ed è umano azzardare voli che
ci liberino, in parte, dalla nostra insufficienza terrena. Ed è così che
chiediamo alla parola dei contorcimenti sinestetico-emotivi, o
iperbolico-allusivi, proprio perché il linguismo non ci è sufficiente a
concretizzare emozioni e intuizioni che rasentino l’azzurrità di quei
mari stagliati su orizzonti di infinita misura, dove la dicotomica
intrusione fra rien e tout scava caverne impenetrabili dentro il nostro essere
mortali:
a te che a sera rientravi e d’inverno
avevi addosso l’odore del vento, tu
il gigante io lo scricciolo, e m’abbracciavi
e colmavi di pane la madia della mia fame
(non vi furono altre braccia che mi resero
mai così densamente regina)
Non è di certo cosa da tutti i giorni fare, di certe iuncturae, vellutati
resoconti iperbolici; abbracci di verbi per immagini di urgente resa lirica (e
colmavi di pane la madia della mia fame).
Quattro i sottotitoli della silloge Piccoli forse (Dalla
torre campanaria, Dal grande terrazzo, Dalle sughere e dalle pietre, Da una
casa sull’albero), che, avvicendandosi in un climax di ricerca
ontologica e di umano esser-ci, sembrano mantenere tutti quegli interrogativi
che inquietano il fatto di esistere; tutti quei forse che fanno della nostra
storia un cammino in bilico fra incertezze e supposizioni; fra chiarezze ambite
e luci di fari a misura umana; anche se dobbiamo riconoscere che in questa
nuova pubblicazione la Caccia compie o cerca di compiere una parziale rimonta
verso un gruppo di fatti reali che si erano allontanati in vista di un traguardo
di onirici orientamenti; un parziale progress che più l’avvicina
all’inarrivabile senso del tutto; a certezze e a contatti con una realtà che
chiede consonanze; e lo fa ricorrendo a una ricerca stilistica, anche se
originale e innovativa, non sempre spontanea; a volte dettata da una
razionalità costruttiva, più che da una invenzione emotiva; comunque i versi,
più compatti, e meno segnati da segmentazioni prospettiche, trovano più
linearità verso una ascesa all’enigmatica complessità delle questioni umane:
tornare ad amare è come
ritrovare una direzione
essere ancora capaci di una
carezza – eppure, così scollati
dai più che la cercano –
riprendere a leggere di me di te
dal rigo abbandonato
dai desideri miei e tuoi
di dare loro una casa
in cui ritrovarci la sera
D’altronde i poeti, e Angela lo è, sono strani personaggi che
vivono coi piedi a terra e l’anima in alto, mischiata in quei forse di un volo
senza riposo; ad ali spiegate; con l’unica “gioia di essere tristi” come
afferma V. Hugo.
Che fine fanno
gli amori abbandonati
l’affetto verso le cose
le amicizie un po’ ventrali
così irrimediabilmente perdute
ci sarà -nel corpo
da qualche parte- un cimitero
di morti innocenti o una sorta
di cellario per stampelle usate
e ormai accatastate
ci sarà un pezzo ristretto di
cielo che s’apre d’improvviso
a gabbiani feriti con ali riparate
o il tratto di una strada che
si intravede
ma solo guardando a ritroso
e un fantasma che vagola
dispettoso da un argine all’altro
ci sarai anche tu che
portavi la tramontana da fuori,
e ghiacciavi le parole –accucciate,
nella bocca, tra loro- e m’abbracciavi,
semplicemente m’abbracciavi,
il tuo freddo al mio calore
perché fossimo in due
a reggere l’inverno dai vetri
Nazario Pardini
DAL TESTO
di notte è il solito festino di fantasmi,
limbo brumoso tra le maglie di un sogno
ti ospito e di noi profumano le pietre
se torni non sfiorarmi, ho cieli di cristallo
non tu ma
il mio amarti
portò
alla luce il meglio di me
gli occhi
al sorriso, alla buona parola
più di un
abbraccio le nostre mani,
–
sincronia di battiti – aderivano, i palmi
a
distendersi come labbra inumidite
non tu ma
il mio amarti
portò il
bello alle narici, un odore
di campi
nel vento di gennaio
di tanto
– di tutto – soltanto l’orecchio
non
pareva sanato, su ogni musica era
il tuo
passo cadenzato che si allontanava
per
raccontarci val bene una musica
e – sì –
scelgo di noi un tango argentino
l’equazione
ci vincola, lo stesso convulso
fondale
gonfia l’onda – non v’è differenza
di
materia sospesa tra il suono e il mare –
fiammante
l’abbrivio, ci accasciamo infine
alla
sponda, stremati minuzzoli di noi
a Gaia, nipote appena nata
la rosa,
quando s’apre
s’apre
all’azzurro
le brilla
il sole sulla fronte
io che
conosco le case
velate di
pioggia, l’avanzo
della
notte che ammorba
l’aria
del mattino voglio
di me una
stilla
nelle tue
arterie, un puntino
sulla
cartina muta del cuore
bellezza
che torni e incanti,
è nei
tuoi occhi che vado
oltre la
mia morte
ti sia
promesso
il
presagio di un nome,
più
veloce il tuo passo
della
nuvola ruzzolante sulla strada,
che
almeno tu vada oltre la siepe –
lì, da
qualche parte, Proserpina
ancora
coltiva le margherite
al piccolo Michele
due mesi
e una
manciata di giorni
estorcono
amore
il seno
turgido non è solo
lì per
nutrire, già nel latte
sono i
sogni di una madre
su tanta
immagine bella
lo
sguardo paterno
è uno
scudo tagliente
nella
parte convessa
lo
schianto della tenerezza
è un urlo
feroce
la mia vita per la tua vita nascente
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