Le
bambine di Carroll di Bonifacio Vincenzi
Nel titolo, così nell’esergo,
la chiave di lettura dell’intera silloge, un sapore di pelle vissuta, una sorta
di vademecum, mementi che fanno da argine e cammino. Un contenitore, la vita. Poco
importa se sarà piccolo o grande, il suo spessore non lo dà il tempo -che, di
sua natura, può solo indicare quantità, non qualità- ma l’afflato nell’attimo, la passione a vivere. Il
contenuto è comune a tutti: meraviglie e orrori, torpori letargici e dinamismi
improvvisi, logoranti inquietudini e dolcezze inattese -poi, isole felici.
Ognuno è Alice: quale la strada?... dove andare? Il Nostro ha già un percorso alle
spalle e, di quello, una lettura (Nessuno sceglie la salita pag.13)
Nessuno sceglie la salita
un’ammirabile terribile forza
spinge verso la discesa
Siamo la corsa che ci rende
ciechi
il viaggio infinito e mai goduto
Parlami di me stesso
raccontami dei sogni
lo chiedo a te che sei me
Mio purissimo impostore
creatore del già creato, dimmi
chi distingue più
il durevole dal passeggero
Chi raggiunge più
il distacco con la calma
nessuno sceglie la salita
nessuno ama più la vita
Quanti rimandi in questa lirica, un bijou di ontologia. Su tutti,
Martin Buber: distingueva le epoche della casa in cui l’uomo si
sente a casa propria nel mondo,
perché chiari i suoi riferimenti religiosi, sociali, cosmici e politici (forse,
“il durevole” di cui parla il poeta); e le
epoche di crisi - che Buber chiama senza
casa- nel corso delle quali l’uomo
perde ogni riferimento.
Accelerare
è, oggi, la prima parola d’ordine, sondare velocemente -immagini più che
parole- accatastare il necessario e, per il resto, passare oltre; scotomizzare,
la seconda: non rimanga nulla di troppo pesante nella memoria, non la fatica
non il dolore, si tenga pulito questo nostro cielo così illusivo -astratto da
ogni realtà. (Il sole del presente pag. 19)
Ogni tipo di emozione
odio compreso
passa nell’alternarsi
di legami e rotture
di
dolcezze e violenze
di
fiducia e disperazione
Di istante in istante
ognuno crea la sua realtà
se ne fa scudo
garantisce
nella sua
piccola isola
solitudini
e silenzi
Per soffrire si toglie
senso alle parole
nessun canto struggente
nessuna aura avvolgente
ma specchi rotti
in cui ripassano pezzi
di ricordi che oscurano
il sole del presente
A tratti il verso -secco e sempre
essenziale- è un distillato di rabbia, poesie dolenti sotto il peso granitico
del disincanto – dietro, quasi un timore: arenarsi in un’illusione (Un pugno
chiuso pag. 16)
Chiusi nello stesso cerchio
oppressi
nessuno nemmeno Dio
può farci qualcosa
Un pugno chiuso
un cielo e un mare di carta
ognuno ha il suo sole
e la sua luna, la propria alba
Ognuno ha il suo tramonto,
ciascuno
l’addio ai ricordi ai sogni
un Cristo pentito torna ogni
notte
sulla terra, e grida
Il
male di vivere è connaturato all’umano, pare ribadire Vincenzi, ognuno lo metabolizza
come può -come sa- sempre alla ricerca di quella maglia rotta. Nessun albero può crescere fino al paradiso
se le sue radici non scendono fino all’inferno, Jung non mostra altre
alternative, e il Nostro (si) scandaglia -nell’attimo e nel suo spazio- per una
feritoia verso un qualunque paradiso (Le due metà del mondo pag. 31)
Essere sempre ciò che si è
sarebbe bello certo
rivalutare
imperfezioni e difetti
stare dalla parte buona
Comprendere
che la metà
del mondo disarmonico
dona fascino, calore
alla metà più bella
Ma vi sono strane verità
nel loro guscio, aspettano
secoli per essere aperte
da un inatteso, piacevole
raggio di luce
Sarà vero?... sarà così anche per me?... e ti accorgi che il libro
ti ha preso: quel parlare sottile e soffuso -tra sé e sé- sguscia nel tuo
piccolo contenitore di afflati -e tu stai lì, a fare due conti.