La lettura della silloge di Angela Caccia
“Il tocco abarico del dubbio” consegna
alla memoria, più ancora dei contenuti, la qualità di un linguaggio spesso
innovativo, alto ed elegante al cui ritmo la metafora appare una necessità del
tutto intrinseca. Ogni verso ha quella forza perentoria di un’affermazione a cui si può giungere solo
dopo un’analisi attenta di tutti i frammenti del proprio esistere e dell’esistente
in genere, così come appaiono in quel flusso perenne che scorre dalla vita
verso la morte. L’autrice si sofferma spesso su questo enigmatico limen, infittendo la sua narrazione
poetica di cose e persone scomparse, di assenze che ne frammentano il presente, di attese dolenti
e coraggiose, fino ad immaginare la propria morte come un volo dalla “gabbia di
carne” finalmente aperta.
Proprio sul dubbio di questa sospensione
esistenziale si incontrano e qualche volta si sovrappongono la sfera personale
e quella pubblica: così, per fare un esempio, le morti degli extracomunitari
mai approdati e inghiottiti dalle acque del Mediterraneo (Lì
dove sei, pag. 21 e Nello sguardo di
chi resta, pag. 20) si prestano ad una riflessione a tutto campo, che
aggiunge alle implicazioni politico-economiche di queste recenti tragedie
quelle etico-esistenziali determinate dal difficile
piacere del dubbio// che sia finta la frontiera su quel crinale/ se chi muore
chiede conto /della propria morte a chi resta.
Il lavorio formale rappresenta probabilmente
anche uno strumento di decantazione del dolore. Fra il sentirlo e lo scriverne è
necessario per l’autrice (ed il pensiero va alla poetica foscoliana) un lasso
di tempo che lo metamorfizzi come in un
processo alchemico capace di trasformare la sua pietra opaca in oro,
scintillante come un acino d’uva. In questo modo ricerca interiore e ricerca
formale si illuminano reciprocamente e ogni avanzamento poetico diventa anche
un avanzamento conoscitivo e auto-rappresentativo.
Angela Caccia allude spesso a questo suo
metodo di lavoro e non solo attraverso le metafore. In uno dei suoi testi in prosa, che qua e là si
alternano con quelli poetici, scrive: “Chi
crede che il fare poetico sia un fungo che in una sola notte si sparge
sull’ombra della pietra non conosce l’uva, e quanto tempo impiega a farsi acino
di sole”.
L’indagine conoscitiva del proprio sé è
portata avanti anche attraverso l’osservazione della natura, che solo talvolta
dà vita ad epifanie di bellezza, ma il più delle volte rappresenta la proiezione
del mondo interiore dell’autrice, pervasa com’è dalla stessa pena del
transeunte, dallo stesso destino di morte. Anche la presenza di Dio è filtrata
attraverso la malinconia del cuore, e della Sua storia di relazione con
l’umanità viene soprattutto messa in evidenza la passione della croce, la
stessa che tocca ad ogni creatura.
Se una nota, allora, vogliamo cercare che
sia dominante nel lavoro poetico della Caccia dobbiamo identificarla in quel
sentimento della pietas che annoda
insieme vivi e morti, la natura e l’uomo, la sfera dei sentimenti e quella
della ragione entrambe travagliate. A chi, infatti, le chiede quale sia il
senso della vita, l’autrice risponde di avere “mille risposte e nessuna”, ma
porge l’invito a restare insieme per guardare sorgere l’aurora dopo “l’ultimo
spicciolo di notte”.
Franca
Alaimo
15
Giugno 2015