martedì 5 maggio 2015

Il centro del mondo di Domenico Cipriano



Ci sono pensieri pervasi da un silenzio che si chiama pudore, timidezza o semplice discrezione; pensieri che, una volta espressi, continuano a risuonare in chi li accoglie perché ne riconosce un’eco familiare: parole parlanti. Leggere Domenico Cipriano equivale ad entrare nelle sue stanze segrete – simili alle nostre e, molte volte, a noi stessi sconosciute - che, in un verso deciso eppure così morbido, schiude ad una ad una, a poco a poco.

Già nella dedica, “a Sofia, il centro del mondo”, si intuisce quale il loro punto di fuga: un centro che si identifica nell’amore per la figlia – l’amore paterno è quello più vicino al sacro perché ha estremi irrazionali e imponderabili come una fede -, non può non irradiarsi all’intero mondo, e diventarne il filtro, un ponte, l’abbraccio.

Fili, i versi, che ora si estendono sino a toccare lontananze di affetti così presenti e vivi

A mio padre

Si è raggrumata in sogno
la sequenza dell’adolescenza
noi due seduti: tu intento
a leggere il giornale, io
un libro, cogliendoci nelle parole,
fermando quell’istante quotidiano
complici gli odori della casa
il calore della stufa a kerosene
e il velluto a scacchi delle poltrone (…)

A mia madre

Nella nostra casa sono cresciuti
i ricordi, i discorsi di gesti consueti
che ora non possiamo vedere.
Commentiamo al telefono sprazzi
di giornate incolori, senza dettagli:
quasi scompare la vita all’assenza.
Ma le carezze erano l’infanzia
e il nostro vivere sapendoci vivi
fingiamo ci basti.

ora si contraggono ripiegandosi su sé stessi per godere quell’attimo che ci/si astrae dal tempo e  si fa sapore fugace di eternità

Nemmeno i corpi uniti nell’amore
E racchiusi in un respiro solo sanno dire
Dell’immenso in cui mi perdo ora
Per questo tramonto vulnerabile e mobile
Nel bagliore di una luce sterminata
Tra le voci intrecciate in lontananza.

Versi, questi ultimi, che sembrano evocare la dolce felicità di leopardiana memoria dove l’infinito/felicità si identifica nella totale assenza di attrito.

Struggenti di tenerezza le liriche dedicate alla moglie: nel suo amare, fase successiva all’innamoramento, il nostro si rivela “ancora” perdutamente innamorato

Attraversati dalla falena dell’intimità
non sussurriamo parole, i pensieri
ci nutrono senza darci voce. Siamo
vicini, in una pacata solitudine,
senza timore dei silenzi su questo
treno lento, sicuri che siamo in due
a guardare gli alberi lì fuori.

C’è un fil rouge che lega, anche implicitamente, molte liriche: il tempo. Il tempo nelle tre dimensioni, nelle sue sfaccettature, da diversi punti di visuale: e il pensiero ha una gittata ora corta ora lunga nel tentativo –ahimè, vano – di assorbirlo tutto e motivarlo nel suo incedere.  È importante l’attimo, è vitale, non basterebbe una fotografia a immortalarlo, ci vogliono le parole e parole esatte per scavarne ed esaltarne l’essenza:

Nell’ora dai toni grigi, quando
l’inverno prova a scomparire
e si accendono gialli i falò
sulle rampe dei presepi morti
la luce si assopisce lieve
sul crinale esposto al vento,
la tua pace ritrovata è grazia
simile all’assenza arsa.

E ancora

Nell’attesa calma della cena
il rosso misura l’istante riflesso
dell’animo fuori dal corpo.
Curva si dona la penombra
si allunga, si scansa e concima
l’assenza nella riflessione,
la luce abbaglia e deforma
ogni riflesso di foglie. Compare
nella piazza da tempo svuotata
l’ombra solitaria del doppio
racchiusa nella coda dell’occhio.

Non è paura d’invecchiare, la sua, forse nemmeno quella di morire. Cipriano pare voler scansare col suo verso laser una prerogativa, la bestemmia che grava sull’umano: l’abitudine a contrarre abitudini, occhi da miopi che assommano e travisano. Forme di adattamento che Bergson chiama “memoria senza ricordo” capace di generare automatismi che non ricercano più la consapevolezza dell’esistere, dell’essere.

Il nostro – vivaddio - è fuori dal coro, rifiuta ogni forma di memoria/abitudine e si lascia attraversare, anche dolorosamente, dal ricordo, dall’emozione dell’attimo, e solo per vivere profondità a molti inaccessibili, di cui si fa, in un luminoso verseggiare, suo indiscusso testimone.