Non amo gli aggettivi in poesia, tracce sbilenche
di rossetto su labbra già
spesse di sostantivo –due righi e ne ho già inseriti due, era a rischio il
terzo!…
Il nome non può reggere una specifica realtà senza connotazioni,sarebbe come trovarsi di fronte un vicolo chiuso dopo una curva
inattesa e stretta o, al contrario, in un enorme spazio con alle porte
l’agorafobia.
Eppure non amo gli aggettivi, spiantano ferocemente i cirri che il nome
irraggia e preserva da venti di certezze, assiomi tiranni, vedute confezionate
e ristrette.
Così prensili al nome, sono foglie che insecchiscono presto, si
impiccano da sole allo stelo e deformano quanto prima era parte di un corredo
che identificava, restringendo il campo ad un particolare che, anche se non lo ripudia, sacrifica
l’universale.
Per quanto strano, credo che l’aggettivo stia alla ragione quanto il
nome all’istintiva creatività. È lei, la ragione, la deputata a fare le pulci e
sottocatalogare, nessuna come lei, ad esempio, sa immiserire nella parola cielo
il suo connaturato alone -l’infinto -, imbellettandolo di attributi.
Si dovrebbe avere la forza di metterla in ginocchio quando s’affaccia
un pigolio di poesia, tacitare quella pentola colma d’acqua in ebollizione:
pensieri che confabulano tra loro per decidere chi innalzare a monumento del
giorno attraverso gli aggettivi.
Io amo le stelle
pistilli senza più petali, prive di sottocategorie, così essenziali in
una bellezza che sta tutta in un rimando, una sorta di alone (peraltro –
paradosso- si tratta del sostantivo più aggettivato): fiore.