Caro Sergio,
il tuo scritto è di una tale fluidità che si beve in un attimo, pare di sentire la voce del pensiero nel suo svolgersi. Che avessi un'ottima dimestichezza con la parola introspettiva, lo sapevo già...
Hai descritto, abilmente e amabilmente, quello che penso sul - e a cui tendo col -'fare poetico': importante (perché utile terapeutico funzionale), solo se supera l'autocompiacimento verbale, rinuncia alla tentazione di farsi vespasiano di quotidiane turbe e, filamento di realtà, tende a recuperare un equilibrio/armonia che ripristina IL vivere essenziale e si porge, generosa e inconsapevole traccia, al lettore (non so, in coscienza, quanto la mia ci riesca, la tensione c'è tutta).
Il resto è noia; lirica o meno che sia una poesia – se la mia è affetta o baciata da lirismo, non ho colpa nè meriti, fa tutto l’inconscio! -, che non mi fa sentire sulla pelle la fatica dell'autore nel raggiungere quella meta, è noia!
E che il tuo pensiero giunga come luminoso puntale sull'albero, mi fa osare un accostamento, forse blasfemo, tra poiein e maestosità del Natale: entrambi progetti di salvezza, strutturati su una fede che non è infallibile, ma coriacea nel suo tornare e ritornare come grazia instancabile e mistero luminoso, così incarnato nell'umano, da rigenerarlo ogni volta.
Tanta premessa per far intendere quanto sia piena traboccante entusiasta la mia gratitudine a Te.
Angela
“Nel fruscio feroce degli ulivi”, Fara Editore, Rimini 2013
Si ha un bel dire che la poesia è fatta di parole e di sillabe. Invece la poesia è fatta anche di volti, di voci, di corpi, di incontri. Quindi, io non posso separare la lettura di queste poesie dalla persona di Angela Caccia, e dalla sua voce che le recitava.
Chi, invece, non le avesse mai ascoltate, sappia che la tradizione in cui la poesia di Angela si inserisce è, con decisione, quella della lirica. Non è, quella di Angela, una poesia interessata agli equilibrismi stilistici, ai funambolismi verbali, agli oscurismi di qualunque sorta. Declina piuttosto, con grazia e competenza, il grande idioma, vorrei dire la koiné poetica italiana di quest'ultimo secolo. Parla di sentimenti, sensazioni, pensieri, esperienze, paesaggi, persone.
Mi piace recuperare una bella parola che, purtoppo, nel tempo ha corrotto il proprio significato: mediocritas, in quell'accezione oraziana di “stare nel giusto mezzo”, evitare gli eccessi, che era la virtù somma per il grande venosino, così come per tutti i filosofi antichi. Ecco, non vorrei tirare per forza in ballo il DNA magnogreco di Angela, ma ciò che leggo in questi versi è proprio la capacità di mantenere il tono in un'aurea mediocritas, che sa inchinarsi, di volta in volta, verso il prosaico (o persino l'ironico) o verso il sublime, senza mai perdere il proprio equilibrio stilistico.
(Per inciso, è mia profonda convinzione che, dopo questo Novecento in cui tutto è stato sovvertito, ribaltato, raddrizzato, smontato e rimontato infinite volte, sia tempo di recuperare un equilibrio. O almeno, l'ipotesi di un equilibrio.)
Davide Rondoni, nella prefazione al libro, parla di “momenti di visione” che emergono da questi versi. Io preferirei parlare, più ampiamente, di momenti di “percezione”: momenti in cui un accostamento di parole, una callida iunctura, una scintilla semantica particolarmente intensa fanno disallineare, per un attimo almeno, la nostra idea del mondo: “Ognuno ingoia del suo pianto nel / fruscio feroce di ulivi ignari” (Incipit); “Accucciati sulla panchina / succhiano a occhi chiusi / il sole finto di dicembre” (I vecchi); “Intrecciavo collane alla mia bambola / anche lei bambina sposa, quando un nido / tra i rami aggrovigliati m'accese tenerezza” (Dal Vangelo di Maria); “Si sfilaccia il pomeriggio / il mare come me cambia pelle” (Pastello).
Sono diversi i temi affrontati in questa raccolta: il dialogo con l'altro (si tratti di un Io o di Dio), la riflessione sul proprio fare poetico (“quella parola che spiega / mi compiace / e sa quadrare il cerchio”), l'esperienza personale (la maternità, l'età) e quella più ampiamente esistenziale (“si naviga a vista rotolando sull'onda gonfia // la più slanciata a lontananze d'orizzonti”); l'amore, soprattutto, che di quando in quando si apre a una delicata sensualità (“mano impudica / volteggi sul corpo amato / a spumeggiare sottopelle intime fibre”).
Se dovessi esprimere una preferenza personale, direi che ho sentito più riusciti i momenti di lirismo più trasparente e sgombro, quelli in cui il verso aderisce alla ruvidezza del mondo, senza appesantirsi troppo di intenzioni (“sarò moglie capace all'uomo mio, terrò il / focolare sempre acceso e grappoli di cipolle / ed erbe secche ai muri”, ancora dal Vangelo di Maria). Perché alla fin fine, come sosteneva Rilke, “le poesie non sono emozioni, sono esperienze”. E non è un caso che proprio alla vita oggettuale, pre-razionale, faccia appello un componimento che sta al centro quasi esatto del libro, Non chiedo mai, dove la poesia è descritta per quello che, in effetti, è: aprirsi all'esperienza del mondo, rifiutare le domande e accogliere le risposte.
E al verso, musica di pause sconfinate,
non chiedo se è nato da una ruga o
è fresco d'alba, se è canto di creazione
o l'ombra di cose già avvizzite
lo colgo fiore
chissà dove e quando seminato
al sole di ogni mattina.
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Sergio Pasquandrea, affetto da poesia congenita, gestisce i blog Ruminazioni e Gusci di noce
Chi, invece, non le avesse mai ascoltate, sappia che la tradizione in cui la poesia di Angela si inserisce è, con decisione, quella della lirica. Non è, quella di Angela, una poesia interessata agli equilibrismi stilistici, ai funambolismi verbali, agli oscurismi di qualunque sorta. Declina piuttosto, con grazia e competenza, il grande idioma, vorrei dire la koiné poetica italiana di quest'ultimo secolo. Parla di sentimenti, sensazioni, pensieri, esperienze, paesaggi, persone.
Mi piace recuperare una bella parola che, purtoppo, nel tempo ha corrotto il proprio significato: mediocritas, in quell'accezione oraziana di “stare nel giusto mezzo”, evitare gli eccessi, che era la virtù somma per il grande venosino, così come per tutti i filosofi antichi. Ecco, non vorrei tirare per forza in ballo il DNA magnogreco di Angela, ma ciò che leggo in questi versi è proprio la capacità di mantenere il tono in un'aurea mediocritas, che sa inchinarsi, di volta in volta, verso il prosaico (o persino l'ironico) o verso il sublime, senza mai perdere il proprio equilibrio stilistico.
(Per inciso, è mia profonda convinzione che, dopo questo Novecento in cui tutto è stato sovvertito, ribaltato, raddrizzato, smontato e rimontato infinite volte, sia tempo di recuperare un equilibrio. O almeno, l'ipotesi di un equilibrio.)
Davide Rondoni, nella prefazione al libro, parla di “momenti di visione” che emergono da questi versi. Io preferirei parlare, più ampiamente, di momenti di “percezione”: momenti in cui un accostamento di parole, una callida iunctura, una scintilla semantica particolarmente intensa fanno disallineare, per un attimo almeno, la nostra idea del mondo: “Ognuno ingoia del suo pianto nel / fruscio feroce di ulivi ignari” (Incipit); “Accucciati sulla panchina / succhiano a occhi chiusi / il sole finto di dicembre” (I vecchi); “Intrecciavo collane alla mia bambola / anche lei bambina sposa, quando un nido / tra i rami aggrovigliati m'accese tenerezza” (Dal Vangelo di Maria); “Si sfilaccia il pomeriggio / il mare come me cambia pelle” (Pastello).
Sono diversi i temi affrontati in questa raccolta: il dialogo con l'altro (si tratti di un Io o di Dio), la riflessione sul proprio fare poetico (“quella parola che spiega / mi compiace / e sa quadrare il cerchio”), l'esperienza personale (la maternità, l'età) e quella più ampiamente esistenziale (“si naviga a vista rotolando sull'onda gonfia // la più slanciata a lontananze d'orizzonti”); l'amore, soprattutto, che di quando in quando si apre a una delicata sensualità (“mano impudica / volteggi sul corpo amato / a spumeggiare sottopelle intime fibre”).
Se dovessi esprimere una preferenza personale, direi che ho sentito più riusciti i momenti di lirismo più trasparente e sgombro, quelli in cui il verso aderisce alla ruvidezza del mondo, senza appesantirsi troppo di intenzioni (“sarò moglie capace all'uomo mio, terrò il / focolare sempre acceso e grappoli di cipolle / ed erbe secche ai muri”, ancora dal Vangelo di Maria). Perché alla fin fine, come sosteneva Rilke, “le poesie non sono emozioni, sono esperienze”. E non è un caso che proprio alla vita oggettuale, pre-razionale, faccia appello un componimento che sta al centro quasi esatto del libro, Non chiedo mai, dove la poesia è descritta per quello che, in effetti, è: aprirsi all'esperienza del mondo, rifiutare le domande e accogliere le risposte.
E al verso, musica di pause sconfinate,
non chiedo se è nato da una ruga o
è fresco d'alba, se è canto di creazione
o l'ombra di cose già avvizzite
lo colgo fiore
chissà dove e quando seminato
al sole di ogni mattina.
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Sergio Pasquandrea, affetto da poesia congenita, gestisce i blog Ruminazioni e Gusci di noce