E’ un luglio
irragionevole: 28 gradi alle sette del mattino. Fortuna che troveremo l’aria
climatizzata in autobus, lo attendiamo in 40, tutti turisti in formato comitiva di
sconosciuti in vacanza. Tra noi si abbozzano sorrisi per familiarizzare
da subito: il viaggio in Grecia durerà una settimana, un tempo troppo breve per
una buona amalgama. Si aggiungono, da lì a poco, una serie di aggravanti: il
condizionatore, lungo la strada, si rompe, malori improvvisi per il forte
caldo, le cabine, prenotate sulla nave che ci trasborderà, risulteranno
occupate.
A Patrasso, la
mattina dopo, due occhi affossati e uno sguardo che anche il Lombroso
definirebbe assassino, ci raccontano.
La nostra guida è un omaccione dal ventre così prominente che è consigliabile
evitare la traiettoria dei bottoni della sua camicia. Anche il viso è
esagerato, ogni movimento repentino della testa lascia dondolante la
pappagorgia. La figura, istintivamente simpatica, tradisce uno sguardo e un
fare a limite dell’insolenza. Ha, da subito, tutta la nostra antipatia. Il
poverino diventa un ottimo elemento d’aggregazione: la comitiva è fatta !
Pernottiamo a
Micene. Zaffate e lontani belati accentuano la tonalità bucolica del paesaggio:
quattro case sparute, le due più grandi sono adibite ad alberghi. La prima
impressione è che la luce elettrica sia appena arrivata, ma nulla scalfisce
ormai l’animo vacanziero della comitiva. In compenso la cena è squisita, almeno
fino a quando non veniamo a sapere di aver mangiato carne di capra.
Arriva il giorno
fatidico, il vero motivo di quel viaggio: 14 luglio 2004, una judoka crotonese
gareggerà alle olimpiadi che si stanno svolgendo ad Atene. Raggiungiamo lo
stadio, una torre di Babele dove il tifo, che ci arroventa tutti, sbiadisce le
nazionalità. Avevamo ben pianificato gli slogan da scandire. Pensavamo che
bastassero striscioni e un’ugola da caramella vidal per assolvere il nostro
dovere di fan, invece un gruppo nutrito di coreani, accanto a noi, ci mette in
crisi. Sono guidati da un capo stranamente agghindato che danza su un solo
mattone e dirige il coro che, quando attacca, è una voce sola, maestosa,
dominante.
Intanto allunghiamo
gli sguardi alla ricerca della nostra atleta, Pina. Eccola ! si sta scaldando.
Al diavolo la scaletta “ Pi-na, Pi-na, Pi-na”. Inizia l’incontro: la sua
avversaria è una cinese, “ Pi-na, Pi-na”; il combattimento si fa sempre più
duro, ma la tenacia non la molla e noi con lei, “Pi-na, Pi-na”. Ad un tratto il
tifo pare raddoppiarsi, quadruplicarsi, è un boato: i coreani si sono uniti a
40 cuori sospesi alla loro “Pi-na, Pi-na, Pi-na”. Il resto, purtroppo, è
storia: Pina è sconfitta.
Raggiungiamo
silenziosi l’uscita. La delusione gocciola ma nessuno vuole ostentarla: evitiamo
di guardarci tra noi. Ma il gruppo, invece di compattarsi, si va stranamente
affinando, e il coro, all’interno del palazzetto, è sempre più acuto: i nostri
ragazzi – gli adolescenti della comitiva - si sono uniti ai coreani e insieme
sostengono il loro atleta. E’ consolante quella lettura “altra” dello sport. La
solidarietà ha un respiro largo. In alcuni, poi, si fa subito circolazione
sanguigna:
qui è la terra mia...
Realtà ruvida e greve
chiusa in un memoriale antico, dove il
pianto e un sorriso si fanno ancora
pane spezzato insieme
nel vino dello stesso grappolo.
È la chiusa di una mia poesia, il titolo è
“Gente mia”.
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