E’ “un mondo enigmatico e puro” - scrive, e acutamente, Moisè Asta - quello che emerge dalla lettura del Canto del silenzio, un interessante libro di liriche di Angela Caccia, “una poetessa profondamente impegnata, che ha fede profonda in quel che dice, che ha tanta voglia di comunicare con l’altro ed, in primo luogo, con l’altra se stessa, per capirsi più che per farsi capire, per delucidare a se medesima i tumulti interiori che si accavallano dinanzi, pure, al fluire incessante ed indolente di situazioni non sempre afferrabili e gratificanti. I suoi versi - osserva Asta - sono riflessioni, desideri, messaggi, preghiere, sentenze, che, come tali, non sono né allusivi né elusivi, ma lasciano al lettore la più ampia facoltà di un’interpretazione libera, variegata, non univoca, e che non necessariamente deve coincidere con le mire e con gli enunciati di chi li ha composti”.
La Caccia chiarisce nella prefazione ciò, che la “incoraggia a scrivere”, definisce “un mistero la motivazione vera che invoglia a pubblicare, a cedere qualcosa di sé, forse la più preziosa, certo la più riservata”. E’ ricca di suggestione la sua definizione di poesia: “i versi - scrive, non senza una profonda sofferenza interiore - sono lacrime che un poeta non ha saputo piangere e sorrisi che ha cercato di imbrigliare, oscillando tra il tentativo di vivere e un grande progetto di vita. Ogni prefazione a versi è una chiave di lettura sulla quale influiscono le proprie lacrime e i sorrisi, e segna quasi un percorso obbligato, per molti aspetti deviante”.
Non manca la poetessa di enunciare il fine della sua poesia, una riflessione sull’uomo ed un coinvolgimento dell’uomo nel suo essere. “Se è vero - annota, infatti - che sulla punta della mia penna hanno vibrato emozioni, ho costruito pensieri, gli stessi – o forse altri – raggiungeranno liberamente il lettore attraverso quella che non è solo la “mia poesia”, ma un luogo comune da condividere, e la gratificheranno col dono dell’universalità”. La poesia, su questa linea, “è - osserva ancora Asta – solo un messaggio che il poeta manda a se stesso, ed è mandato per rimuginare, ora con trasfigurata disperazione ora con una soave calma dell’anima, i personali tormenti indecifrabili, le inconfessate macerazioni interiori e gran parte delle mute riflessioni ad ampio respiro, che alimentano la sua vena poetica fino a rendere vivibile la vita che, altrimenti, darebbe scacco matto all’essere umano”.
E’ ricco il mondo poetico della Caccia. Nella lirica iniziale, “L’eco di un suono”, la poetessa dichiara che la sua poesia “è l’eco di un suono”, “ non ti svelerà mai la parola. Rimarrà sospesa come stella nella notte”. In “Ancora e per sempre” e in “E ti rìdono gli occhi” la Caccia celebra il miracolo della maternità, che “si traduce nella dolcezza senza confini di cui è capace solo una madre vera, della quale, oggi, purtroppo, molto spesso si comincia ad avvertire la mancanza”.
Molti altri sono i motivi della Caccia, sono senza dubbio da porre in rilievo il componimento “A Natale”, ove è ricordata la povertà, in senso lato, di tutti e di ciascuno, “Pensiero dolce”, in cui tra l’altro la poetessa ricorda che “l’odio antico non è ancora una vecchia leggenda nera” e che “sogno e disincanto si rincorrono, si sfidano nella poesia e nel dramma di ogni vita, ma – aggiunge con una certa fiducia e tanta speranza – è di nuovo Natale… per cui preme ricorrere alla “infinita pazienza di ricominciare”. Né è da tralasciare “il ricordo toccante che la Caccia ha del genitore”.
E’ da condividere pienamente il giudizio critico di Asta: Angela Caccia “propone una poesia “piena”, ricca, pura, in cui abbondano i segreti rapporti e le analogiche associazioni in sostituzione dei nessi logici che restano alla base della grande poesia pre- e post-ermetica e che la rendono tante volte anche inaccessibile, senza che, per questo, l’Autrice se ne faccia un cruccio. E’ la poetica - conclude Asta - dell’insoddisfazione eterna, delle situazioni che rimandano sempre ad altre situazioni, che propiziano impietosamente, addirittura impongono, le umane macerazioni e che allarmerebbero qualsiasi essere umano, non sufficientemente consapevole dell’assioma secondo cui la vita resta sempre degna di essere vissuta”.
30 novembre 2004
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