martedì 13 febbraio 2018

Sulle grandi tematiche dell’esistenza umana - di Rosa Elisa Giangoia



















  


Nel 2017 Angela Caccia, poetessa di Crotone, la cui produzione lirica ha avuto fin dagli esordi apprezzamenti e riconoscimenti, che sono andati crescendo negli anni, ha pubblicato due nuove sillogi che confermano il consolidarsi della sua linea poetica in un originale itinerario di sicura efficacia espressiva.

    Nella prima silloge (Piccoli forse, LietoColle) a dominare è un linguaggio che si articola in un intessersi serrato di immagini sospese tra realtà e immaginazione in cui il surrealismo apre squarci di significato nella pregnanza di un’espressione fortemente soggettiva.  La voce poetante è intensamente concentrata su se stessa nella decifrazione di un mondo interiore che nel configurarsi poetico assume la consistenza di un’astrattezza pittorica, innervata da domande e riflessioni sull’esistenza. Si susseguono sensazioni forti («il cielo brucia più forte dell’inferno», p. 16), di fronte a cui si leva l’interrogativo della poetessa («non chiedermi il perché / di questi adombramenti», p. 16) che,  mossa da uno dei piccoli forse  che ci portano a scandagliare il nostro esistere, si confronta con la parola “morte”, sottolineandone la natura intrinseca di limite ontologico dell’esistenza umana («si scivola lenti e tutti / ad una morte sempre più anonima», p. 53), di fronte a cui occorre mantenere stoica determinazione («serbammo / solo un fondo di pietà, e ci bastò / per morire da uomini», p. 54). Nonostante questa percezione, l’orizzonte della vita si dilata in ampiezze sconfinate di orizzonti, di sensazioni, di legami affettivi, di memorie, di rimpianti, ma anche di speranze.  A tenere insieme tutto, eliminando i forse, sono prevalentemente gli affetti, gli abbracci («(non vi furono altre braccia che mi resero / mai così densamente regina)», la parola “mamma”, l’amore soprattutto («non tu ma il mio amarti / portò alla luce il meglio di me», p. 26), i legami familiari («è nei tuoi occhi che vado / oltre la mia morte», p. 28; «la mia vita per la tua vita nascente», p. 29; e sarò io domani a doverti, p. 67; seduto su questa luna, p. 68; li guardo dormire, p. 77).

   Ma con rilevanza si snoda la meditazione sulla precarietà dell’esistenza con una forte percezione soggettiva del succedersi delle impressioni nei vari momenti ( «ogni piccola tappa / è un attentato alla meta più vicina», p. 34; «il risveglio è questa macchia  /  lontana di fiori», p. 35), a cui si accompagnano la meraviglia di fronte alla natura (il giardino delle rose, p. 38; più di me fu l’albero, il cantuccio, p. 70), la fiducia nelle parole («parole importanti / qui si rompono / e ricompongono», p. 42), la difficoltà di comunicazione totale anche nell’intimità («quello che non si sa di te […] quello che non sai di me», p. 51), la persistente fiducia nella vita («Dell’aurora amo la promessa», p. 55). Tutto sta nel  forse, anzi nei piccoli forse che rappresentano le incrinature dell’esperienza esistenziale che aprono quelle fessure  che possono essere di disperazione («allargassi lo spiraglio / mi vedrei franare / a pezzi, p. 63»), ma tramite le quali si potrebbero ipotizzare aperture verso quegli orizzonti che fanno sì che «ogni Adamo ti chiama Padre» (p. 58). A prevalere è, però, il dubbio per cui «tutto viene accatastato all’angolo / resta solo un gioco di specchi» (p. 59), mentre anche gli obiettivi si rivelano ingannevoli  («Itaca è l’inganno!», p. 65). Gli spiragli restano tali, non si aprono a orizzonti di fiduciosa immensità, per cui la conclusione ha note di amarezza: «il mondo è questa stanza stretta / ad ognuno il suo metro cubo di / desiderio e realtà che fanno a botte» (p. 79).

   La seconda silloge Accecate i cantori (Fara Editore) presenta un titolo che induce subito a una linea interpretativa di ascendenza classica, che può rifarsi alla tradizionale figura di Omero, cantore cieco, a personaggi presenti nei poeti omerici (Tiresia, Demodoco), ma anche a più antiche tradizioni dell’Egitto e dell’Oriente, a una sentenza dell’oracolo di Delfi («la memoria è la vista del cieco»), a una sapienza biblica, sempre nella comune idea che la cecità apra a doti di superiore sapienza e aiuti a scandagliare le profondità dell’anima. Su questa linea la poetessa cerca «rotte» che perseguano la «traccia buona / già calcata» (p. 10), consapevole che occorra «non fidarsi più degli occhi e frugare oltre» (p. 12), ma appoggiandosi su lla «preziosa memoria dell’aedo» (p. 24), perché l’importante non è quello che gli occhi vedono, ma quello che il cuore sente e la voce del poeta sa esprimere, portandosi dietro il bagaglio esperienziale della memoria ( Conto le sedie vuote, p. 41).  A prevalere nel dettato poetico di Angela Caccia è sempre la specificità espressiva prevalentemente autoreferenziale, sovente metaforicamente enigmatica, che rende più difficile la comunicazione con il lettore, con poche occasioni di un’apprezzabile espressione lirica più distesa e comunicativa, sostenuta da un bozzettismo personalmente rivissuto tra memoria e rimpianto (Bianca casa di nonna Grazia, p. 48; Mi piacciono le strade lunghe, p. 49; Borghetto di campagna, p. 58; L’ortica ridipinge l’entrata, p. 63).

    Nel susseguirsi delle liriche dapprima la poetessa si sofferma su una riflessione sul male, per concludere che «non ci si addentra mai al dolore / al male sì / per fronteggiarlo   in qualche modo» (p. 11). Poi indaga il rapporto con i figli, constatando, con un filo di speranza, senza  l’atteggiamento interrogativo di leopardiana memoria,  che «avrà un senso questo andare / per campi e per stelle / fiancheggiare i dirupi / e danzare in un fiotto di sole / tra le pozze di pioggia / avrà un senso…» (p. 14). C’è fiducia nelle parole della poesia (Di rabbia, p.15) che, però, possono anche venire a mancare (Giorni senza voglia, p. 42) e ricomparire nel fuoco sotto la cenere dell’ispirazione («una poesia senza il punto finale / finché c’è spunto per un altro verso», p. 43), mai sopita e capace di risvegliarsi nella «manciata di minuti prima dell’alba» (p. 44). Ma c’è anche la fiducia  negli altri («tu sei il pellicano dal petto gonfio / e lo porgi», p. 16), nella connessione tra presente e passato per consolidare (e accettare) la «tensione» del vivere (Capita, p. 18; Un (pre)sentimento, p. 20 ) fino a percepire la propria «mano che tesa riceve» quella del Tu che la porge e «fa trovare pane / dove non lo cerco, ma non conforta completamente e non protegge «da una verità che fa male..» (p. 27), nei cui confronti anche la parola poetica, disvelandosi nella ricerca, risulta inadeguata (la poesia sta dietro, p. 32),  per la consapevolezza esperienziale che il male prevale sul bene (Addobbavamo a primavera, p. 31) e che gli interrogativi da rivolgere con sconforto a Dio sono sempre in agguato (Mia madre e la sua demenza / … madre demenza, p. 37; Non si perdona, p. 45).

  Con queste due raccolte Angela Caccia conferma la validità della sua produzione poetica in cui la riflessione sulle grandi tematiche dell’esistenza umana trova forme espressive di grande novità e sicura efficacia nell’intreccio di metafore e sinestesie di intensa originalità creativa.   

Rosa Elisa Giangoia