giovedì 4 gennaio 2018

La vi(s)ta nella parola - Carla Villagrossi


Mi piace pensare che la poesia di Angela Caccia voglia condurci in un percorso a occhi chiusi. Accompagnata dalle sue parole posso andare oltre il visibile, seguire un itinerario inaugurale di conoscenza. Posso immaginare realtà esterne (estranee) e scenari interiori che si rivelano nel procedere per strade lunghe bagnate di pioggia.[1]

L'autrice ci induce al sapere e al divenire seguendo il “dove” della parola  introspettiva. Stare con la poesia, stare nel racconto per non fermarci ai significati dello sguardo, così / la poesia è una tentazione / a lungo andare / un non fidarsi più degli occhi e frugare oltre.[2]
Le parole scorrono diventando esperienze relazionali, pensieri ispirati, visioni che si intrecciano e sfumano in melodia. Il verso emerge come prodotto della solitudine, generato, tuttavia, da una vocazione all'ascolto e al dialogo.

Occhi chiusi per vedere la luce divina, per diventare i veggenti della notte, per ascoltare la voce dei sogni. E intanto scolora sui tetti / e intorno è una piccola festa, / non sarà facile / svuotare di tutta una notte ogni cosa / non sarà facile.[3] E tuttavia l'intento (suggerimento) dell'autrice è proprio quello di liberarsi delle false certezze per ascoltare il dialogo interiore che rimbalza dalla notte alle pallide luci dell'alba, che intende il domani guardando al passato.
In questa che sembra la prudenza degli anni / la mia intimità con la parola / è uno specchietto retrovisore: / il dinanzi acquista più senso alle spalle. Con la saggezza di chi sa tornare dal fondo a se stessi e scriverne[4] per reagire al dolore e alla fine dei giorni.

Mentre proseguo il dialogo con le parole di Angela, sento che la sua voce si mescola al racconto, accolgo le incrinature nelle quali si insinua la forma  malinconica. Struggente stato d'animo. La passività riflessiva che allerta la memoria e lega i pensieri ai corpi e alle voci.
La natura non si estingue alla fine, la vita continua nell'esistenza dei sopravvissuti: sarei un cimitero / se anche in me morissero i miei morti.[5]
La separazione si dilata nel tempo e si sofferma nella poesia. Per incontrare la fine possiamo farci accompagnare dall'alba e dal giorno, da una luce che attraversa il buio. La rinascita è in attesa, Addobbavamo a primavera / i balconi di dicembre.[6]
La parola si concede come svelamento retrospettivo, riporta alla presenza le persone e le cose lontane o isolate, il verso si lega alla memoria del luogo e dello sguardo, si organizza in ricordo aurorale.
Nelle poesie di Angela, pensiero e sensibilità sono tra loro fedeli alleati. E  misurano il distacco dalla realtà e dalla vita, con doloroso e riflessivo contegno. Nella memoria la vita si allunga e si distende. Il tempo del sogno è una rivoluzione della logica comune e dei ricordi.
È questo racconto della notte e del buio che induce l'autrice al passo ritmato. La parola che si genera nella solitudine, che conquista una nuova terra.
Angela Caccia, con gli occhi chiusi, guarda, si guarda e ci guarda. Non vuole dirci (la) verità, ma solo cercare un pensiero autentico seguendo la geografia dell'esperienza. Incantata ricettività per illuminare il corpo originario, deformante presenza che appare nella luce sacra, il tragico destino e la divina ispirazione (stella polare).

Non si perdona
chi ami e invecchia per la morte
io non ti perdono questa farsa
in cui sarei la figlia e tu la madre
se sono io che ti imbocco
-io– a farmi bastare per entrambe
un respiro solo

non ti perdono il tuo sperderti
in rivoli e baleni   vorrei –a volte-
fossi già morta per salvarti intatta
in un ricordo faro –a me-
stentata barcarola e mozzo (poi mi pento
e tremo che Dio -un dio qualunque-
possa ascoltarmi
e impoverirmi della stella polare il cielo)[7]

Il lettore è accecato quanto il cantore.
Anche a occhi chiusi si riverbera il nostro universo che incontra l'esistenza significativa e fondante della poesia. Possiamo accogliere le parole dell'autrice solo attraverso il nostro racconto (controcanto), il registro che ci appartiene. 

Entriamo nella casa di Angela, nelle sue case, ognuno ha due case nel petto / in una è chiamato a sognare nell'altra / a camminare con le ombre.[8] La casa natale sta dentro di noi, torneremo per tutta la vita a quel luogo, agli spazi interiori del capitolo d'avvio della nostra esistenza.
Il corpo della madre è la prima dimora, l'essenza che si eleva nella preghiera, che si predispone alla celebrazione, una liturgia della mancanza prossima e necessaria. Non saremo mai dispersi nell'intimità della nostra casa, se prima, in principio, ve ne fu un'altra.

Con Angela Caccia facciamo un percorso comune che si compone (e ricompone) negli spazi dell'ascolto e del silenzio.
Con lei possiamo cercare la parola che rende visibile l'inafferrabile nella qualità della domanda, nell'interrogazione inesauribile.

Carla Villagrossi




[1]A.Caccia. Mi piacciono le strade lunghe, Accecate i Cantori, Fara Editore, 2017, p.49
[2]Ivi, Dismparare a scrivere, p.12
[3]Ivi, E intanto scolora sui tetti, p. 29
[4]Ivi, In questa he sembra la prudenza degli anni, p.35
[5]Ivi, Conto le sedie vuote, p. 41
[6]Ivi, Addobbavamo a primavera, p.31
[7]Ivi, Non si perdona, p.45
[8]Ivi, L'ortica ridipinge l'entrata, p. 63