mercoledì 19 luglio 2017

Storie di un tempo minore di Angela Angiuli


È come se lanciassimo qualcosa di noi -scardinato dalla nostra struttura che ci identifica, lontano da un linguaggio comune convenzionale- oltre noi: sarà questo un buon verso. Non cade, non scivola, ma siamo noi a lanciarlo in un immaginario oltre, perché viva di vita propria; una parte che ci appartiene ma che è giusto se ne differenzi per quel suo dire e raccontare aldilà dell’io che l’ha generato.
È il gusto di un momento di grazia: in una lingua impopolare, come inesplorata, un fiato d’anima -o chi per lei- nell’attimo in cui è stritolata o avvolta da braccia possenti.

Una considerazione che mi ha suggerito la lettura di questa BELLA silloge di Angela Angiuli, Storie di un tempo minore, edito dalla Fara di Alessandro Ramberti. Il titolo, a primo acchito, spiazza un po’, ma tutto si gioca su quell’aggettivo, minore, che -forse … probabilmente… - non indica qualcosa di inferiore ma di subordinato, non di marginale ma di giovane, sorgivo.
Sul retro della copertina, sette righe dell’autrice spiegano il motivo e l’ispirazione di questi versi succosi: un prosimetro

“Questo libro è stato scritto per il dolore di molti e per la vita che in tutti continua a circolare e a sporgerci in avanti, nonostante tutto. È stato scritto in dialogo d’intimo silenzio con Mino, fratello minore, che a 37 anni ha lasciato questa vita per l’Altra. Continuerà ad essere scritto in tutti coloro che leggendolo troveranno voce per tutto quello che in noi non ha suono”.

Ma, da qui, a desumere che si tratti di pagine addolorate dolenti, di quelle che ti portano, insieme all’autore, in un baratro, si sbaglia. Mai, come in questo caso, così valide le parole del filosofo ginevrino Henri Frédéric Amiel

“La poesia è liberazione, perché è una forma di libertà. Lungi dall’essere un’emozione, essa è lo specchio di un’emozione; è al di fuori e al di sopra, tranquilla e serena. Per cantare una sofferenza, bisogna esser già, se non guariti di questa sofferenza, almeno convalescenti. Il canto è sintomo di equilibrio; è una vittoria sul turbamento, è la ripresa delle forze.
E il canto dell’Angiuli ha un che di vittorioso: il dolore trova nel verso una casa, tra le tante, che fanno villaggio e forse l’anima:

A Mino  (pag. 31)

Mio fratello è un tramonto di rose
a cui ha mangiato le spine
uno stormo di uccelli di cui ha preso la direzione
e vola vola e guida l’avanzata
delle stelle sul mare
che tanto ha amato fino a traboccare.
voleva cavalcare le onde -lui- come un puledro,
ci è saltato sopra con un salto gentile
troppo alto per capire, è arrivato fino alle sirene,
ha avuto un bell’ardire.
Veleggia ancora lui dalla spiaggia,
ha mangiato la sua morte, ne ha trovato l’ormeggio
e il coraggio di dire -si-
ad un mondo nuovo che albeggia.

E ancora da pag. 24

I suicidi sono animali interessanti
hanno il becco di un picchio
con cui rompere la scorza della vita
mangiano ossa spellate dalla consunzione
                                quotidiana
le bucce trovano gustose e pare che gettino il frutto.
Ma io so che hanno la vista lunga
più lunga del desiderio, loro lo sanno attraversare
tarlare il creato fino in fondo
perché il loro frutto non è più qui
ha allungato i rami nel giardino del Vicino,
e loro -lì- se lo vanno a prendere.

La delicatezza di questi versi su un tema che raggela, il tutto “maneggiato” con dita di vento, sottile profumato: parole che non condannano non assolvono -e come potrebbero?... – si limitano a intravedere il giardino del Vicino che sa come prendersi ancora -e per sempre- cura di quei rami che hanno oltrepassato la staccionata.
Affascina in questi versi, in ogni pagina, una fede grande sincera spensierata perché, già da tempo, meditata e sofferta e, quindi, consolidata. E come ogni poesia di fede che si rispetti, di fatto, non parla -né può parlare- di morte, ma solo di resurrezioni.

La poesia è e sarà sempre intraducibile, resterà “regionale” anche se di tanto in tanto tenderà verso altre fonti d’ispirazione – così scrive Harry Martinson, poeta e scrittore svedese, Nobel per la letteratura nel 1974.
Forse -oso- la poesia vera è anche incommentabile: ogni lirica un viaggio, compiuto seguendo un tracciato preciso che ha escluso altre strade; occhi che hanno conservato e raccontato quei paesaggi e non altri; a chiosare un buon verso si rischia di togliere o aggiungere una foglia ad un albero, di suo, già perfetto. 
Da pag. 41

Scrivo fragile
sono un popolo senza storia
-tracce di mosca- tarli di carta.
Scrivo a matita per il bambino che in me aspetta il semplice
linee storte o oblique per tracciare la Speranza
                                che fugge ogni misura

Scrive fragile la Nostra, per non disturbare -forse- le voci che la popolano, che in lei convogliano, si intrecciano. Siamo la somma di ciò che leggiamo e più amiamo, una mirabile sintesi. Ma il superamento di quella sintesi -e Angela Angiuli lo sa bene- quando e se arriva, è voce cristallina e vergine di poeta: CHAPEAU !