martedì 4 marzo 2025

L'OSSERVATORE ROMANO - Silvia Guidi

 

Grata a L’Osservatore Romano e a Silvia Guidi che ha estrapolato alcuni versi dall’ultimo mio libro e ne ha fatto preziosi inserti per uno splendido arazzo.

Leggendo la nuova edizione di Ode al Monte Soratte di Claudio Damiani (Monterotondo, Fuorilinea Editore, 2025, pagine 68, euro 13) viene in mente l’immaginifica — ma reale — affollata solitudine di chi scrive e legge poesia, resa celebre dal titolo di un fortunato libro di Fernando Pessoa. Un’affollata solitudine, ovvero una comunità invisibile composta da chi, nei secoli, legge le stesse parole in traduzioni diverse, in contesti storici diversi, ma sempre lasciandole risuonare dentro di sè, specchiandosi in esse come in un prisma capace di scomporre la luce, di illuminare più a fondo il manzoniano guazzabuglio del cuore umano.

Tornano in mente, per affinità di sensibilità e di stile, e perfino per affinità di situazioni descritte (vedremo poi perché) anche i versi di Angela Caccia tratti dalla raccolta Di lentissimo azzurro pubblicata da Campanotto Editore (Udine, 2024, pagine 70, euro 13): «Se leggo un verso/acconsento a quella breve residenza/del cuore/in un cuore altro/m’impegno a oltrepassare la stessa notte/reggo il peso di righi bianchi/i sensi allertati da spifferi furtivi». 

Il punto di contatto è l’incipit del primo libro delle Odi di Quinto Orazio Flacco, Vides ut alta stet nive candidum / Soracte. Lo scorso 27 gennaio, a Roma, nel cantiere delle arti underground in senso letterale La CAVe — che, anche nel nome, ricorda i locali spartani, essenziali, popolati dai maglioni neri degli esistenzialisti negli anni Cinquanta — sono stati letti brani tratti dal libro di Damiani. Dall’autore, ma anche da tanti amici presenti, tra cui l’attore Giuseppe Cederna e il cantastorie appassionato di improvvisazione poetica Davide Riondino.

Dal libro di Damiani il Monte Soratte emerge familiare e misterioso al tempo stesso, «miniera di natura e storia — scrive l’autore nella premessa al volume - montagna sacra tempestata d’eremi e chiese, e prima templi pagani, e prima ancora altri templi (dio Sole, dio Lupo), area sacra tra genti diverse, ponte tra culture antichissime. Montagna magica anche se Goethe nel Faust vi ambienta la notte di Valpurga classica, cioè il grande sabba di tutte le streghe d’Europa. E poi, andando indietro fino al Giurassico, la storia geologica che l’ha visto parte del calcare apuano, isola circondata dal mare». 

La pura magia dell’incipit della prima ode oraziana rivolta ad Thaliarchum ha il potere di legare tempi, luoghi, storie lontanissime. Una di queste ha per protagonista il viaggiatore e scrittore inglese Patrick Fermor che visse a lungo in Grecia, nel villaggio di Kardamili, al centro del Peloponneso. Durante la seconda guerra mondiale, nel 1944, Fermor fu a capo del gruppo di partigiani che a Creta sequestrò il generale tedesco Heinrich Kreipe. Condotto dal commando fino sul monte Ida, luogo di nascita di Zeus, colpito dalla luce dell’alba sulla montagna innevata, Kreipe recitò ad alta voce Vides ut alta stet nive candidum Soracte. Citazione a cui Patrick Fermor rispose con le strofe seguenti della poesia che conosceva a memoria in latino. Su fronti avversi, ma custodi di uno stesso tesoro di cultura condivisa. «Procediamo indistinti/io e l’autore — scrive Angela Caccia — tra noi/ la strana fratellanza in una guerra/di cui nessuno sa bene il nemico». 


Silvia Guidi