La poesia di Angela Caccia è esatta. Possiede un’armonia geometrica. Affonda nella tradizione senza pedanteria. Intravede una scrittura inedita senza posture sperimentali. Avesse un rumore la solitudine/ sarebbe silenzio/ e quello di una stanza d’albergo non dà eco/ eppure/ avanzano tamburi al suono di neve. Attraversando la sua opera L’alveare assopito (FaraEditore, 2022, premiata al Faraexcelsior), mi vengono in mente le passeggiate in uno dei nostri centri storici che testimoniano la civiltà alla quale apparteniamo.
Ammiri le architetture che hanno assunto una bellezza archetipa. Fanno sfigurare le edificazioni spaziali destinate facilmente al degrado e, prima o poi, ad una risolutiva demolizione. La poesia della Caccia segna la presenza di una linea poetica insostituibile… Quale tempo/ s’accorgerà che ce ne siamo andati? Eppure, si percepisce l’incubazione di un germoglio che contiene in sé la propria contraddizione e il proprio superamento. Poesia/ è ciò che non è accaduto. In questo cono d’ombra consiste la forza generativa di una poesia che innova senza essere del tutto nuova, si raccoglie in un generoso e protettivo lievito di approdi poetici che possiamo solo intuire.
Come scrive Davide Zizza nella prefazione, “se scrivere è morire a sé stessi, generare un altro sé; se scrivere è una deviazione dall’io (poetico, aggiungerei), allora quell’altro sé s’accampa in ognuno di noi e ci parla con una voce, nostra e tuttavia diversa, creando crepe profonde nel grigiore dell’agire diurno, nell’incarnato del proprio essere”. Mi piacerebbe/ per una volta/ srotolare l’ombra in avanti:/ fosse lei a pencolare il corpo. Allora, sì, starà in questa crepa la fonte delle slogature che talora disarticolano il testo. Appunto, si tratta di crepe, inciampi, improvvise variazioni formali e semantiche che collocano l’equilibrio stilistico di queste poesie sopra una linea di confine. E’ attraverso queste ombre, appunto, che si riflette una poesia che riesce ancora a stupirsi e a sorprendere.