Di solito, quando mi arriva un libro fresco di stampa, mi soffermo sul titolo e sulla pagina di copertina, che accarezzo a lungo e delicatamente, come se le mie mani volessero afferrarne l’essenza. L’immagine di copertina mi ha colpito molto, perché rappresenta un alveare speciale, a spirale, creato da api particolari, senza pungiglione, chiamate tetragonulae carbonariae. Costruiscono decine di livelli uno sopra l’altro, dando al nido una forma a spirale. Sono insetti che rappresentano il simbolo dell’anima, della purezza, del coraggio e della difesa del loro habitat; sono davvero incredibili e non finiranno mai di stupirci, così come ci sorprende sempre Angela Caccia anche con la sua ultima raccolta, L’alveare assopito, prima classificata al concorso di poesia Faraexcelsior 2022.
Del resto, il suo curriculum è costellato da numerosi e prestigiosi premi per la sua indiscutibile forza comunicativa data dai suoi versi “metallici e taglienti, incisivi e fertili”, come sono stati definiti dalla componente della giuria Ilaria Maria d’Urbano. Come la spirale evoca il flusso del tempo con i suoi vari cicli di cambiamento, così la Nostra, varcata la soglia dei Sessanta, compie un viaggio dentro sé stessa. Ci trasporta in un mondo di meditazione, di nostalgici ricordi e di una solitudine avvolta nel silenzio. Il silenzio la guida, soprattutto di notte, verso l’ascolto dei desideri più nascosti, le fa comprendere la coscienza più profonda, in un delicato alternarsi di toni, dove luci ed ombre, sogni e realtà, dolori e gioie, smarrimenti e speranze, assenze e presenze convivono e creano un equilibrio che affascina fin dai primi versi.
Una foto da cui sciamano presenze, trovata per caso, suscita in lei il confronto tra la giovinezza e l’età delle rughe e la vita si srotola come fili impercettibili; apre una parentesi nella linearità del tempo e lo sospende. Insieme ad Angela Caccia si va oltre, in un’altra dimensione, si sorvola sulle frivolezze, si vola ad alta quota, mentre si seguono le nuvole che si ammatassano, mosse dal vento che inscena un teatro di ombre. La luna, di leopardiana memoria, striscia, si arrampica e nel tonfo asfalta l’opaco, disegnando la solitudine della strada. Si vive un tempo sbilanciato povero di promesse, avaro di attese, si assiste al cambio delle stagioni, soffermandosi su un agosto che evapora a colpi di coda per cedere il posto ai bucati di settembre, gli ultimi pranzi di un sole malfermo e partecipando al congedo della rondine sulla rampa ripida dell’autunno. In primavera si sbenda l’inverno, increduli che l’aria sia tornata a profumare. Alla scrittura, una lama che sfibra il foglio, così viene descritta nell’accurata prefazione di Davide Zizza, la poetessa affida i suoi sentimenti di figlia (siamo entrambe gocce pendule a un ago di pino) e di madre (ci vivremo accanto nell’orbita dell’abbraccio che conosciamo), i suoi dolori che scavano strade nel sonno, mentre riallaccia la vita alla vita e sente invecchiare il tempo a un ritmo più pigro, pervasa da una malinconia sonnolenta; le fanno compagnia le pagine sfogliate a caso della poetessa Biancamaria Frabotta, che immagina immersa nel giallo delle ginestre tra la Viandanza e l’Affeminata.
Sono, queste, vibrazioni trasmesse con
uno stile che si nutre del nettare magico dell’immaginazione, che si perde in ombre di antiche tenerezze nella
consapevolezza che, invecchiare
invecchiando è un sentimento elastico, mentre si riempiono i giorni del sole a disposizione.