“Piccoli forse”. Il poeta
- anzi, la poetessa - qui si fa cantore delle piccole cose, come nei migliori
crepuscolari, come in Guido Gozzano che faceva rimare Nietzsche e camicie e
parlava di
“piccole
cose di pessimo gusto”.
Nella
silloge di Angela Caccia, parimenti, l’osservatore è
minuscolo e si mette a guardare ciò che lo circonda da diverse prospettive.
Ogni sezione del libro ha il suo punto di vista, la sua differente angolazione.
Perché il recinto che ci accoglie conta, influenza la nostra visione del mondo,
intride il nostro animo di smarrimento o, al contrario, di un diffuso
sentimento di amore e appartenenza. Angela si sporge dalla torre campanaria,
dal grande terrazzo - che molti considerano solitudine e dove lei ritrova la
sua dimensione equilibrata in mezzo ai fiori -, dalle sughere e dalle
pietre - che tradiscono un’appartenenza calabra e offrono già, da brevi
pennellate, l’immagine di una natura aspra, severa e affascinante -, e
infine da una casa sull’albero, il sogno di ogni bambino che si annida in noi.
Lo scenario naturale abbraccia il poeta, si fonde con lui in una corazza che
penetra anche l’anima e la fa parlare. E ci sono i colori, vivaci, che riempiono
gli occhi, come l’azzurro, il lilla, e ci sono i fiori, le rose, le margherite,
lo spazio è via via sterminato o piccolo come una aiuola, porto sicuro proprio
per la sua dimensione angusta.
La prima poesia che si incontra contiene la poetica di questa raccolta:
La prima poesia che si incontra contiene la poetica di questa raccolta:
“piccole
note a pioggia/ una lingua di vocali piane”.
In effetti,
il linguaggio di queste liriche tende a quello colloquiale, i versi sono
frammenti senza titolo, lettere maiuscole o punti fermi, come se si trattasse
di biglietti affidati al vento, oppure parti di dialogo, fiotti di parole che
vanno e vengono come la marea. I termini sono appunto quelli del quotidiano -
incontriamo anche “post-it” - ma qui e là, come a ricordare a chi legge che si
tratta di poesia, l’autrice concede ai versi qualche raffinatezza letteraria,
incastonando, tra gli altri, vocaboli come scotomizzare, farandola, vagola.
Inaspettata, spunta un’allitterazione a riportare all’ordine il messaggio
poetico: “bozzolo di guazza”, “glicine gocce lilla”, “sudore
che... secerne”, “lapilli lave veleni”.
Numerose le metafore e le similitudini, che servono a dare corpo alle immagini,
a rendere vivace e penetrante lo sguardo; e così la casa è “un randagio devoto
accucciato sulla strada” e la vita viene paragonata al volo degli aquiloni, l’interlocutore
si fa “un atollo speronato dai venti” e i figli diventano “le zattere che
tornano” alla riva.
C’è fisso in tutto il percorso uno struggimento che è
consapevolezza che tutta la bellezza che l’occhio ammira è fugace, la parola
morte è un velo che si posa sulle cose, le adombra e dà loro un incredibile,
immenso valore. La morte che ci rende fantasmi impalpabili che sanno solo
guardare alla vita con nostalgia. Ogni cosa sfugge, scivola via tra le dita,
impossibile trattenere alcunché e il cammino è lungo e faticoso.
In molte di
queste liriche c’è un interlocutore, qualcuno con cui l’autrice dialoga, e che
si scorge nella seconda persona di “ti guardo”, “a te che la sera” e nei
possessivi “tuoi... miei”. È un qualcuno di mobile e sfuggente, non meglio
definito, probabilmente cambia di poesia in poesia ed è presenza necessaria
perché il dialogo si faccia vivace scambio, affinché ci sia un complice,
qualcuno che sappia condividere ricordi e sensazioni, immagini trascorse come
gatti, spighe, un vecchio sulla panca, il castello aragonese... vedere assieme all'autrice le ombre lunghe della sera, quelle riprodotte anche in copertina.
E anche la mitologia fornisce personaggi che evocano
un’assenza, una lontananza, come Proserpina e Ulisse, mentre non mancano
riferimenti biblici, laddove si citano Adamo, Barabba e l’apocalisse. Ma, alla
fine, tutti questi “piccoli forse” che tolgono la certezza al tutto e
sostituiscono i “per sempre” degli amanti, sono mattonelle di un qualcosa che,
paradossalmente, ha il sapore dell’infinito, di un sentimento abissale e vero
che ravviva i colori e rende nette le linee degli scenari che l’osservatore (il
poeta o il lettore che sia) si ritrova a guardare.
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