Il dubbio è il punto di partenza per ogni
(affannosa) ricerca e disamina del sé o dell’altrui. Non si può prescindere dal
dubbio: segue lo scandalo, la pietra-di-inciampo, e serve inderogabilmente per
la nostra liberazione. Angela
Caccia, già dal titolo, Il tocco abarico del dubbio, dedica tutta la
sua nuova silloge, edita da FaraEditore, a
definire quel momento abarico in cui, tolti dalla nostra realtà dal dubbio
indagatore, siamo proiettati in un altrove a tratti sconosciuto, e pertanto
spaventoso, ma anche emozionante e propulsore di nuove scoperte e
identificazioni. Quel luogo remoto dove le potenzialità dell’umana natura sono
spinte fino all’estremo, dove ogni possibilità si concreta in atto e, ancor
prima, in presa di coscienza.
Nella poesia di Angela Caccia la ricerca del
dubbio, il suo salmodiante procedere per folgorazioni ripetute, come goccia
d’acqua che corrode la roccia, è supportata dalla parola, una vera e propria
trivella, che con la precisione di un bisturi chirurgico, arriva al cuore della
sostanza, in una ricerca precisa e puntuale del termine che più di altri
significa quel dettaglio, quella sfumatura, quell’ombra. L’indagine va avanti
per frammenti, per piccole molliche di pane che diligenti ma precarie segnano
il percorso, la rotta da più o meno assecondare: “Ad una incollatura /
dell’autunno / bisognerà smagare / presto i suoi ricordi // dolcissimi detriti
/ vani naufragi”.
Certe volte, è dolcissimo il lasciarsi abbandonare al fluire della vita, delle memorie, dei ricordi che ostinati premono e ci chiamano in causa, facendoci persino dimenticare per uno o per più attimi, dove stavamo andando con così frettolosa urgenza: “Riposti i remi in barca / non avrà più importanza / l’arrivo / la rotta”. E spesso è tutto un ritorno, un ritrovarsi a desiderare e vagheggiare dimensioni remote, lontane, persino bibliche nei loro contorni e nella loro sostanza, come se tutto il viaggio compiuto fosse soltanto la fatica di tornare ai migliori sé stessi: “Fu sera e fu mattina / sino a noi, / quando la luna / ancora si curva / ai bisbigli della creazione”. In tutta questa ricerca, c’è una natura vigila e sveglia, una natura che spesso assume i toni del tenebroso, del buio, entro cui la persona deve trovare il suo personale modo di venirne fuori senza accusarla di disattenzioni né ..: “Anche qui / ulula un randagio / prega la sua luna / resta la notte”.
Chi accompagna l’uomo è sempre,
inevitabilmente, la parola, che è come cera, anzi, persino come acqua, che
filtra da ogni varco disponibile e riempie ogni significante. Un topos, quello
della parole che svela e schiude, come un novello gomitolo di Arianna
nell’oscura profondità del labirinto, ma la questione non si chiude né si
esaurisce mai, in una necessità continuamente rinnovata di parole che siano
precise, puntuale, alimentanti e nutrienti: “Uno solo / il vocabolo giusto che
/ aderisce all’attimo / e trova il bandolo / di un groviglio lanoso / in
petto”. E la poeta, perché donna, sa utilizzare le parole anche per gli altri:
“Sul rigo sbilenco che non volevo raddrizzare / io la virgola incerta già
frugavo tra le parole”.
L’aspirazione dell’essere umano è sempre lì, a
portata di mano e di ciglio. Perché non si può pensare alla missione del vivere
dimenticandosi di che significato abbia la vita stessa, e la sua missione,
persino vocazione, di una ricerca che non ha mai un approdo ultimo: “E insieme
/ nell’ultimo spicciolo di notte / saremo noi l’aurora / gli occhi puntati ad
est / e il fiato corto”.