Il dubbio è, nell’età moderna, segnata dalla riflessione filosofica di
Cartesio, al centro dell’esperienza esistenziale dell’uomo che progressivamente
si è ritrovato sempre più propenso a dubitare su tutto, sull’origine della sua
vita e sul suo destino ultimo, ma anche sul suo presente, che mai può definire
sicuro per l’intrinseca immediata possibilità di cambiamento, come sul suo
stesso comportamento, sempre oggetto di incertezze, interrogativi, perplessità.
Il dubbio si estrinseca in parole, quelle che lo esprimono, per questo
Angela Caccia ne ha fatto il centro tematico della sua seconda silloge poetica Il tocco abarico del dubbio (FaraEditore,
Rimini 2015, pp. 93, € 10,00), titolo impreziosito lessicalmente da
quell’aggettivo “abarico”, di radice greca, di uso esclusivamente scientifico
per indicare il punto di non incidenza delle forze gravitazionali della Terra e
della Luna che, quindi, si annullano a vicenda. In questa sospensione di interrelazioni
viene posto da Angela Caccia il dubbio, quell’incertezza che contraddistingue
tutto il nostro vivere, quasi bloccandolo nel riverberarsi nel molteplice
quotidiano che per questo si fa costantemente problematico.
Ad illuminare positivamente la scena del vivere non basta lo stupore di
ogni giorno (Stupori), né risultano
risolutivi i bagliori di luce cristiana, soprattutto non sufficienti a
consolare la poetessa di fronte al dispiacere di non avere certezze da
comunicare ai figli.
Posta questa centralità del soggetto dubitante, le poesie di Angela
Caccia nel susseguirsi della raccolta si articolano e sfaccettano in una
pluralità tematica che tende anche ad allontanarsi dal proposito centrale con
momenti di osservazioni e considerazioni sulla realtà, con esperienze di scambi
affettivi, con occasioni di lettura disincantata e anche ironica
dell’attualità, con omaggi letterari e artistici.
Interessante diventa la riflessione sulla fatica e il disincanto dello
scrivere, espressi in una lettera indirizzata al libro stesso, iniziato,
abbandonato e ripreso, portato avanti tra incertezze e timori, ma anche con
fiducia nella forza espressiva della poesia, sentita come un proficuo e
costruttivo abbandono: «incedono chiari i versi / si prendono per mano / le
parole esatte // solo un’eco / il robotico suono della ragione / l’anima è
sciolta», Frammento 2). È la poesia
stessa che si impone all’autrice, in quanto capace di coinvolgerla e
trascinarla con la sua forza: «Ho da scrivere una poesia / lo sento … (Nella mia pozza)». Il suo lasciarsi
prendere dalla poesia è giustificato proprio dalla definizione che Angela
Caccia dà della poesia come «quella parola che, per fortunate o abili
combinazioni, dà più di quanto dice», il che ne fa un’esperienza gratificante.
Il dire poetico di Angela Caccia è elaborato e ricercato, con immagini
costruite in ardite sinestesie. Bastano pochi esempi: «solfeggiano ancora
pollini», in Di blu lapislazzulo;
«dovrò annaffiare parole», in Propositi;
«piove fitta la tua assenza», in Tra le
mani; «lenzuola candide di dimenticanze», in Non ho un titolo; «mi fioriscono ancora gli occhi», in Il disegno abbandonato; «scoiattoli di
parole», in Senza titolo. Si avverte un itinerario concettuale ed
espressivo impegnativo, contraddistinto dalla fatica di un’ascesa
caratterizzata da un frequente «doloroso ricadere a valle» che proprio per
questo tempra e fortifica. L’itinerario espressivo è in sintonia con quello
concettuale del dubbio e a caratterizzarlo nella tensione espressiva sono anche le originali creazioni lessicali
(anche qui basta qualche felice esempio: «croci abbalconate», in Sei letti; «pastella il cielo / di
maggio», in S’inchiostra un ghirigoro;
«rami / fogliosi», in Le labbra al bello),
nonché i ripetuti tentativi di dare alle «solite parole» «profili nuovi».
Rosa Elisa Giangoia