Questa nuova raccolta di versi di Angela Caccia si presenta fin dal titolo (Il tocco abarico del dubbio, Fara Editore, 2015) come un itinerario di scoperta o disvelamento del senso dell’esistere, nel quale si inscrive, ontologicamente, l’inquietudine agostiniana (inquietum est cor nostrum…) e pascaliana tra l’infinito essere e l’infinito nulla, e talora “uno spazio abarico dove / ogni cosa è demandata” e “- tiene duro solo la volontà –“ (Sei letti), e quel male di vivere spesso incontrato da Eugenio Montale e da grandi anime sensibilissime e infelici come Simone Weil, Virginia Woolf e Amelia Rosselli, nonché dall’autore del Salmo 68 (…l’acqua mi giunge alla gola / Affondo nel fango e non ho sostegno; / sono caduto in acque profonde…) e di cui anche ci parla quel detto di Anassimandro “iscritto sulla pietra di confine della filosofia greca” che ha dato da pensare a Nietzsche: “Non sarà logico, ma è certamente molto umano… considerare ora con Anassimandro ogni divenire una castiganda emancipazione dall’eterno essere, un’ingiustizia che dev’essere espiata con la morte. Tutto ciò che un giorno è nato, un giorno anche perirà…” (La filosofia nell’epoca tragica dei Greci ) e ad Heidegger: “La traduzione più letterale del detto dice: ‘Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo la necessità (katà tò khreòn), esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo’... Noi andiamo alla ricerca di ciò che fu greco non per amore dei Greci, né in vista d’un progresso della scienza e neppure allo scopo di rendere il dialogo più rigoroso; ma lo facciamo esclusivamente in vista di ciò che in questo dialogo potrebbe giungere a farsi parola, nel caso che vi giunga in base a se stesso. Si tratta di quel Medesimo che , in maniere diverse, investe, in conformità della sua struttura (geschicklich), i Greci e noi. Si tratta di ciò che porta il mattino del pensiero nel destino (Geschick) della terra della sera” (Sentieri interrotti).
Il mattino del pensiero greco sembra proprio che faccia parte del nostro destino di “occidentali” sempre più prossimi al tramonto. Ebbene, anche nei versi e nelle prose poetiche di Angela Caccia traluce quel destino “secondo cui l’essere stesso si illumina nell’ente e pretende un’essenza dell’uomo (e della donna, ndr) che, in quanto conforme a questo destino, trova il suo corso storico nel modo in cui essa è custodita nell’essere o da essa dimessa, senza tuttavia esserne mai separata”. Non ci si può dimettere da quello che siamo (stati) neppure morendo: “Morire d’emblée / sottrarsi alla sacca / del tempo che / tacca lo sguardo // lasciare ammassati in ripiani / gomitoli di sogni / ricordi…” (Le braccia allungate); morire è impossibile per chi non è mai nato, senza la vita non c’è nemmeno la morte dato che: “Vita morte / indissolubile diade / e i nostri occhi impigliati nei suoi fili…” (Nello sguardo di chi resta). Questa indissolubile diade forma come la trama, l’intreccio tematico-musicale che ritorna in quasi tutti i versi in metro libero e nelle prose del “Caro Libello” a cui l’autrice confessa, in una lettera a lui indirizzata come fosse una persona (o, meglio, un personaggio), come e perché non ha poi preso da lui il congedo che sembrava ormai deciso: “…Ho provato a salvarti. Avevo un buon consiglio da usare per scandaglio: uno scritto è valido se, anche l’indomani, lo regge la forza della sua autenticità. Solo allora varrà la pena continuarlo. E continuarlo fino a quando il testo sarà rivelazione di una visione, intima reale, a cui, chi scrive, è legato come da un patto di fedeltà”.
La visione quindi preesiste come una meta nell’anima (nell’inconscio?) dell’autrice, la quale non può fare a meno di cercarla, o meglio, di ritrovarla in uno spazio “abarico”, cioè senza peso, al di là delle determinazioni e dei confini spaziotemporali entro cui accade e si svolge, nel bene e nel male, la vita di ognuno, e di riconoscerla come la visione del principio che dà origine al divenire stesso ma che non vi si identifica, altrimenti perirebbe anch’esso come tutte le cose che divengono: “Chi videro quegli occhi spalancati / nel varcare il confine? / Una parola d’amore / una bestemmia / cosa impastò per ultimo la
bocca? // A noi, strati di tempo, / memorie ancora da colmare / il difficile piacere del dubbio”. Di quale dubbio si tratta? Di un dubbio sospeso “abaricamente” tra speranza e disperazione; la speranza è “che sia finta / la frontiera su quel crinale / se chi muore chiede conto / della propria morte / a chi resta”; la disperazione è non poter rispondere alla domanda muta negli occhi di chi muore, uomo o animale (“ci fosse un dio dei cani…”), è non avere “parole sacre / per i tuoi occhi / stelle senza capanna / sullo stesso meridiano dell’umano: / privilegio di chi vive / è la morte” (Per i tuoi occhi).
La disperazione è quando non si scorge nessuna buona ragione per vivere, quando l’esistenza stessa è vissuta come una colpa da scontare con la morte.
Ma la morte, per l’autrice di questo poetico viaggio, che è anche un cammino euristico del dubbio e della disperazione, non può essere la meta della vita: e difatti la speranza rinasce, ora dinanzi a “Tre rosai impettiti / scoppiettanti di bocci // …bisognerà che scavi / nelle consonanti / tra le vocali / associate al suono / odori canto immagini / dovrò annaffiare parole / che rifioriscano reali / nella penna / tra le mani; // camminare a ritroso sulle mie sponde / sulle orme di ieri risparmiate / dall’onda… // ripetere più volte / Padre nostro Padre nostro / senza mai disgiungere / l’aggettivo dal nome; / ricordarsi di riposare: / la meta un’illusione / solo una carota / per riprendere il viaggio” (Propositi); ora leggendo Rilke: “…profumo di stanze segrete / quanta anima fa la tua atmosfera // elegante il mistero / un velo che ti è carne / e un tratto d’allegria // leggero / è cederti ognuno / il suo essere nel giorno / per sperdersi nel tuo mare / senza sponde” (Sera); ora quando urge l’ispirazione: “Ho da scrivere una poesia / lo sento…/ Non ho un tema preciso / non un piato da cui / spigolare un verso…// scala la ringhiera l’eco del fuori / inverdisce e mette in fiore / parole // sanno di libertà / di mare / - una goccia e / m’azzurrerei le mani” (Nella mia pozza); la poesia (come le mele di Cézanne o il Chiaro di luna di Debussy), non ha finalità pratiche, la parola poetica, come dice felicemente l’autrice “è quella parola che, per fortunate o abili combinazioni, dà più di quanto dice”. Tanto è vero che: “Le nostre parole, tutte, / rimarranno alla soglia / - servissero a costringere, a legare / l’aria ai polmoni!…- le poche / saranno un sottovoce perché / il fondale muto non si sconvolga. // Ma se muore un poeta, Signore, / concedigli che il silenzio più ottuso / si faccia canto di una vita / alla vita che non muore e / si sposta altrove…” (Se muore un poeta). La poesia per Angela Caccia, non è, evidentemente, un mero esercizio letterario, anche per lei, come per Christian Bobin - uno degli autori da lei citati (gli altri sono Fernando Pessoa, R. M. Rilke, Pablo Neruda e Guido Passini) – è l’esperienza spirituale della vita, la più alta densità di precisione, l’intuizione accecante che la vita più fragile è una vita senza fine”. E la morte? Oltre a essere un “privilegio” che tocca solo ai viventi è una linea di confine che possiamo valicare in ogni momento (“divelto il piede da terra / basterà un solo / colpo di reni e voilà…”); una linea di confine che, nondimeno, è parte integrante dell’umana natura e che sta lì a ricordarci che siamo pur sempre esseri finiti aperti sull’infinito.
Fulvio Sguerso