DAL SITO LA RECHERCHE
Il tocco abarico del dubbio si snoda in cinque sezioni “senza un
tema specifico” e in ognuna di queste “si stanzia un esserci di heideggeriana
memoria”. Come dire, dunque, che il filo rosso tematico c’è, anche se non è
così esplicito. Ma pur non essendo esplicito, si dipana nel dubbio costante tra presenza e assenza, tra vita e morte, nel gioco tra
esistenza e essere. Nel dubbio sulla vita e sulla morte, che emerge
costantemente seppur con lievità, tra le righe di questa raccolta, dove la
parola incarna le problematicità dell’essente indovato nell’esistenza, ovvero
dell’uomo, che stanzia nel Dasein.
La poesia di Angela Caccia è,
dunque, una poesia tipicamente esistenziale. La vita è il centro della poesia,
o per meglio dire la vita è poesia e la poesia è vita, in una reversibilità
identitaria portata alle estreme conseguenze. Una vita certo non facile da
vivere, un’esistenza piena di gioie, ma soprattutto di dolori, con lo spettro
incombente della morte, da cui scaturisce l’angoscia; morte, che durante
l’esistenza è, dal punto di vista heideggeriano, l’unica certezza dell’unica
possibilità dell’impossibilità di ogni progetto. La vita implica la morte e la
morte la vita (Vita morte/
indissolubile diade/ e i nostri occhi impigliati nei suoi fili). E
comunque la vita non offre certezze. Tutto è riportabile al dubbio e il dubbio
è il primum movens dell’esistenza, nella quale
noi non possiamo fare altro che metterci alla ricerca di senso.
Il dubbio che ci tocca senza peso. In quella dimensione asettica e aerea, che
si gioca nel campo della nostra spiritualità. Il dolore e la morte sono i
determinanti di una vita che rischia di ridurci al nulla. Il fisicalismo
naturalistico, di cui siamo anche parte col nostro corpo, Körper,
ci ricorda ogni giorno il nostro essere materiale, la nostra precarietà, la
fragilità, la caducità, nelle quali rientra perfino la nostra psiche, da cui la
nostra psicologia. Tutto è destinato a perire. Ma l’uomo non è un qualcosa, che
riguarda solo il suo essere fisico e psichico, l’essenza dell’uomo, pur
partendo da qui, si apre alla verticalizzazione della sua libertà, che è
dimensione prettamente spirituale, e allora è probabile che la destinazione a
cui l’uomo può consegnarsi può essere quella di un superamento del dolore e
della morte attraverso i suoi vissuti e soprattutto attraverso il corpo
proprio, Leib.
E i vissuti passano attraverso la
coscienza, ma ancor più attraverso la poesia, perché è nella parola poetica che
possono eternarsi. Anche il vissuto della morte, ovviamente della morte
dell’altro (A noi, strati
di tempo,/ memorie ancora da colmare/ il difficile piacere del dubbio// che sia
finta/ la frontiera su quel crinale/ se chi muore chiede conto/ della propria
morte/ a chi resta). E come dire che qui abbiamo di fronte una
ulteriorità rispetto ad Heidegger, dal momento che anche la morte cede al
“tocco abarico del dubbio”. La morte che, nonostante tutto, non vuota, ma
riempie, “colma”
silenzi e assenze. È quello che sembra suggerirci Angela Caccia con la parola,
con la sua forza poetica, con la sua creatività, con l’affidare alla parola la
bellezza dell’essere, che dona senso all’esistente che siamo. “La memoria dipinge quadri, ma solo
la nostalgia preserva il colore fugace della felicità”: il pittore
affida alla memoria i suoi quadri, come fa anche il poeta quando descrive i
fatti, ma il poeta raggiunge il suo apice quando affida i suoi vissuti al
dolore del ritorno ai colori fugaci della gioia. Con folgorazioni di istanti,
che sono colti dai sensi o dall’anima e vengono sublimati e eternati nello
spirito. Non per niente uno dei tratti più belli della poesia di Angela Caccia
è anche quello di essere accurato nella descrizione paesaggistica, alla stregua
di un pittore, che conosce molto bene la tavolozza dei colori e li armonizza
sapientemente per la migliore resa. In senso fisico ma soprattutto metafisico,
come quando in Sei letti descrive una stanza di ospedale: Tutti
a ridosso di un lembo/ di parete viola stinto// corpi allettati/ fili d’oro su
consunti broccati// rettangoli di croci abbalconate/ in uno spazio abarico
dove/ ogni cosa è demandata/ - tiene duro solo la volontà -// barcarole
abbittate ad un’unica gomena/ dopo il naufragio// violini abbrancati a caso/ -
a turno, le stesse note strozzate -/ nessuno ha più un nome proprio/ tutti
accampanati dallo stesso dolore.// Sei letti e una finestra sola/ da guardare e
sognare/ - il cielo
che pende da un ospedale/ ha più rondini.
Poesia, che mi verrebbe da definire,
alla luce di molti passaggi di questa silloge, prioritariamente come poesia
pura, alla stregua di Celan e Ungaretti, ma soprattutto alla
stregua degli autori più congeniali alla poeta: Rilke, Neruda e Margherita
Guidacci, non fosse per quel dubbio, di cui sopra, che talora fa planare il
verso e la parola da altezze sublimi a accensioni di concretezza quasi materica,
che rendono pertanto questa poesia da una parte metafisica e dall’altra
empirica, sensuale, razionale, ma che comunque conducono ad un realismo, che è
tipico della dimensione ontica sublimata in ontologia, con un passaggio
obbligato nella cifra della corporeità. E la dimensione ontologica è
rappresentata dalla radura, all’uscita dal bosco e dalle sue ombre, là dove si
dà la possibilità di percepire la girandola dei colori (prevalgono il blu e il
giallo), i sentimenti più nobili, la gioia e soprattutto il senso di vivere che
all’imponderabilità del dubbio possiamo sostituire, se non la certezza, la
speranza di un futuro anche in una dimensione religioso-escatologica di
salvezza. Speranza di salvezza per noi e per chi ci sta a cuore. In questo caso
le battute finali del libro sono tutte per i figli ai quali si vorrebbe
trasmettere il valore e non la nullità dell’essere e soprattutto dell’esistere.
La morte e il dolore sono il
leitmotiv di questa poesia tutta esistenziale ed esistenzialista, ma proprio
perché tale non potevano mancare i versi d’amore. Un amore che implica il corpo
oggetto (Körper)
e il corpo soggetto (Leib)
e li trasfigura attraverso una sensualità, che dalla terra si verticalizza al
cielo nel vissuto più paradisiaco come ne Le labbra al bello: Lasciami i tuoi occhi// vedrò il fiore minuto/ e bianco
tra le agavi/ aprirò con le tue/ le mie labbra al bello.// Dentro, la tua voce/
ha fatto il nido sui rami/ fogliosi di un noi// resto nel tuo sguardo/ una
pianura placida/ un sogno senza scadenza// è in questa luce spersa/ la tua
assenza// l’ombra colma la stanza// sul pavimento cubi/ castelli torri merli/ e
la mia cella; oppure comein Altro da te l’amore, con
quella bella e significativa e metaforica chiusa, così materica, ma nello
stesso tempo metafisica: Il giorno è geloso/ cancella il
profilo della notte/ e sta sgranando il sogno// colano foglie gialle dalla
penna/ mi sorprende che il bordo/ della pagina le raccolga.
In conclusione, mi sento di poter
dire che la poesia di Angela Caccia è una poesia che, pur partendo dal corpo
come oggetto, si libra al di sopra di questo, per raggiungere, attraverso i
vissuti, una dimensione metafisica, affidata in ultimo alla parola poetica, che
sa stupirsi e sa stupirci nel superamento dell’istante, che viene donato
all’eternità. La parola incarna, in ultimo, forse (l’imponderabilità del dubbio
è d’uopo), l’essere, per far sì che l’uomo, nella sua esistenza, ma vieppiù il
poeta, si faccia pastore dell’essere, per custodirlo e per prendersene cura.
Quella di Angela Caccia è pertanto una poesia che rientra appieno in un
orizzonte metafisico, che pur passando per l’onticità si staglia
nell’ontologia. La parola e soprattutto quella poetica, è il perno della
ricerca di senso, che si dimena tra il paesaggio terrestre e il paesaggio
dell’anima, che sa cogliere molto bene la fenomenologia dell’esistenza,
all’esterno e all’interno dell’uomo.
Una parola che lotta costantemente
con il dolore e con la morte per sublimarli dall’assenza alla presenza, solo
che la vita si riesca ad incarnare nella parola per farsi eterna. Per
soggiornare dunque nel paradiso della parola, che è la vita ed è allo stesso
tempo la poesia. Poesia che, unica, riesce a eternare l’istante, perfino quello
della morte, per poter continuare nella ricerca del senso della vita. Quel senso che anche i nostri avi ci hanno
trasmesso, se non nella sua certezza, nel dubbio, col suo tocco
imponderabile, ma vitale, che ci spinge ad
andare avanti fino alla fine, con la speranza che chi ci sarà dopo di noi potrà
continuare nella ricerca di senso per non annegare nel nulla. Noi esseri
umani, noi che veniamo all’esistenza gettati nel dubbio, dobbiamo prendere consapevolezza
di quello che siamo e dobbiamo cercare di rendere autenticatale
consapevolezza, prendendoci cura dell’essere, che abita nella parola e che
nella parola dobbiamo eternare, stando attenti a non ridurre la parola alla
banalità della pura chiacchiera. Che è quello che sapientemente riesce a fare
in questa silloge Angela Caccia, che attraverso la sua virtuosità poetica crea
un’opera d’arte valida su diversi piani, in primis quello letterario, ma anche estetico,
etico, antropologico e civile. In attesa di quel tocco
abarico del dubbio, che cerca risposte, forse senza mai trovarne,
ma comunque sempre alla ricerca di senso, cercando di
rispondere alla domanda: “Perché l’essere piuttosto che il nulla?”. E Angela
Caccia, partendo da una prospettiva heideggeriana, che vuole l’uomo un-essere-per-la-morte,
riesce a superare l’angoscia che ne deriva, per approdare all’esistenza
autentica, in cui si accetta la propria finitezza e nullità da una parte, ma
dall’altra si apre alla speranza riposta nell’eternità, che si incarna nella
parola poetica e nel canto.