martedì 30 giugno 2015

L'eternità che si incarna nella parola poetica - Recensione di Maurizio Soldini



DAL SITO LA RECHERCHE

Il tocco abarico del dubbio si snoda in cinque sezioni “senza un tema specifico” e in ognuna di queste “si stanzia un esserci di heideggeriana memoria”. Come dire, dunque, che il filo rosso tematico c’è, anche se non è così esplicito. Ma pur non essendo esplicito, si dipana nel dubbio costante tra presenza e assenza, tra vita e morte, nel gioco tra esistenza e essere. Nel dubbio sulla vita e sulla morte, che emerge costantemente seppur con lievità, tra le righe di questa raccolta, dove la parola incarna le problematicità dell’essente indovato nell’esistenza, ovvero dell’uomo, che stanzia nel Dasein.

La poesia di Angela Caccia è, dunque, una poesia tipicamente esistenziale. La vita è il centro della poesia, o per meglio dire la vita è poesia e la poesia è vita, in una reversibilità identitaria portata alle estreme conseguenze. Una vita certo non facile da vivere, un’esistenza piena di gioie, ma soprattutto di dolori, con lo spettro incombente della morte, da cui scaturisce l’angoscia; morte, che durante l’esistenza è, dal punto di vista heideggeriano, l’unica certezza dell’unica possibilità dell’impossibilità di ogni progetto. La vita implica la morte e la morte la vita (Vita morte/ indissolubile diade/ e i nostri occhi impigliati nei suoi fili). E comunque la vita non offre certezze. Tutto è riportabile al dubbio e il dubbio è il primum movens dell’esistenza, nella quale noi non possiamo fare altro che metterci alla ricerca di senso. Il dubbio che ci tocca senza peso. In quella dimensione asettica e aerea, che si gioca nel campo della nostra spiritualità. Il dolore e la morte sono i determinanti di una vita che rischia di ridurci al nulla. Il fisicalismo naturalistico, di cui siamo anche parte col nostro corpo, Körper, ci ricorda ogni giorno il nostro essere materiale, la nostra precarietà, la fragilità, la caducità, nelle quali rientra perfino la nostra psiche, da cui la nostra psicologia. Tutto è destinato a perire. Ma l’uomo non è un qualcosa, che riguarda solo il suo essere fisico e psichico, l’essenza dell’uomo, pur partendo da qui, si apre alla verticalizzazione della sua libertà, che è dimensione prettamente spirituale, e allora è probabile che la destinazione a cui l’uomo può consegnarsi può essere quella di un superamento del dolore e della morte attraverso i suoi vissuti e soprattutto attraverso il corpo proprio, Leib.

E i vissuti passano attraverso la coscienza, ma ancor più attraverso la poesia, perché è nella parola poetica che possono eternarsi. Anche il vissuto della morte, ovviamente della morte dell’altro (A noi, strati di tempo,/ memorie ancora da colmare/ il difficile piacere del dubbio// che sia finta/ la frontiera su quel crinale/ se chi muore chiede conto/ della propria morte/ a chi resta). E come dire che qui abbiamo di fronte una ulteriorità rispetto ad Heidegger, dal momento che anche la morte cede al “tocco abarico del dubbio”. La morte che, nonostante tutto, non vuota, ma riempie, “colma” silenzi e assenze. È quello che sembra suggerirci Angela Caccia con la parola, con la sua forza poetica, con la sua creatività, con l’affidare alla parola la bellezza dell’essere, che dona senso all’esistente che siamo. “La memoria dipinge quadri, ma solo la nostalgia preserva il colore fugace della felicità”: il pittore affida alla memoria i suoi quadri, come fa anche il poeta quando descrive i fatti, ma il poeta raggiunge il suo apice quando affida i suoi vissuti al dolore del ritorno ai colori fugaci della gioia. Con folgorazioni di istanti, che sono colti dai sensi o dall’anima e vengono sublimati e eternati nello spirito. Non per niente uno dei tratti più belli della poesia di Angela Caccia è anche quello di essere accurato nella descrizione paesaggistica, alla stregua di un pittore, che conosce molto bene la tavolozza dei colori e li armonizza sapientemente per la migliore resa. In senso fisico ma soprattutto metafisico, come quando in Sei letti descrive una stanza di ospedale: Tutti a ridosso di un lembo/ di parete viola stinto// corpi allettati/ fili d’oro su consunti broccati// rettangoli di croci abbalconate/ in uno spazio abarico dove/ ogni cosa è demandata/ - tiene duro solo la volontà -// barcarole abbittate ad un’unica gomena/ dopo il naufragio// violini abbrancati a caso/ - a turno, le stesse note strozzate -/ nessuno ha più un nome proprio/ tutti accampanati dallo stesso dolore.// Sei letti e una finestra sola/ da guardare e sognare/ - il cielo che pende da un ospedale/ ha più rondini.

Poesia, che mi verrebbe da definire, alla luce di molti passaggi di questa silloge, prioritariamente come poesia pura, alla stregua di Celan e Ungaretti, ma soprattutto alla stregua degli autori più congeniali alla poeta: Rilke, Neruda e Margherita Guidacci, non fosse per quel dubbio, di cui sopra, che talora fa planare il verso e la parola da altezze sublimi a accensioni di concretezza quasi materica, che rendono pertanto questa poesia da una parte metafisica e dall’altra empirica, sensuale, razionale, ma che comunque conducono ad un realismo, che è tipico della dimensione ontica sublimata in ontologia, con un passaggio obbligato nella cifra della corporeità. E la dimensione ontologica è rappresentata dalla radura, all’uscita dal bosco e dalle sue ombre, là dove si dà la possibilità di percepire la girandola dei colori (prevalgono il blu e il giallo), i sentimenti più nobili, la gioia e soprattutto il senso di vivere che all’imponderabilità del dubbio possiamo sostituire, se non la certezza, la speranza di un futuro anche in una dimensione religioso-escatologica di salvezza. Speranza di salvezza per noi e per chi ci sta a cuore. In questo caso le battute finali del libro sono tutte per i figli ai quali si vorrebbe trasmettere il valore e non la nullità dell’essere e soprattutto dell’esistere.

La morte e il dolore sono il leitmotiv di questa poesia tutta esistenziale ed esistenzialista, ma proprio perché tale non potevano mancare i versi d’amore. Un amore che implica il corpo oggetto (Körper) e il corpo soggetto (Leib) e li trasfigura attraverso una sensualità, che dalla terra si verticalizza al cielo nel vissuto più paradisiaco come ne Le labbra al bello: Lasciami i tuoi occhi// vedrò il fiore minuto/ e bianco tra le agavi/ aprirò con le tue/ le mie labbra al bello.// Dentro, la tua voce/ ha fatto il nido sui rami/ fogliosi di un noi// resto nel tuo sguardo/ una pianura placida/ un sogno senza scadenza// è in questa luce spersa/ la tua assenza// l’ombra colma la stanza// sul pavimento cubi/ castelli torri merli/ e la mia cella; oppure comein Altro da te l’amore, con quella bella e significativa e metaforica chiusa, così materica, ma nello stesso tempo metafisica: Il giorno è geloso/ cancella il profilo della notte/ e sta sgranando il sogno// colano foglie gialle dalla penna/ mi sorprende che il bordo/ della pagina le raccolga.

In conclusione, mi sento di poter dire che la poesia di Angela Caccia è una poesia che, pur partendo dal corpo come oggetto, si libra al di sopra di questo, per raggiungere, attraverso i vissuti, una dimensione metafisica, affidata in ultimo alla parola poetica, che sa stupirsi e sa stupirci nel superamento dell’istante, che viene donato all’eternità. La parola incarna, in ultimo, forse (l’imponderabilità del dubbio è d’uopo), l’essere, per far sì che l’uomo, nella sua esistenza, ma vieppiù il poeta, si faccia pastore dell’essere, per custodirlo e per prendersene cura. Quella di Angela Caccia è pertanto una poesia che rientra appieno in un orizzonte metafisico, che pur passando per l’onticità si staglia nell’ontologia. La parola e soprattutto quella poetica, è il perno della ricerca di senso, che si dimena tra il paesaggio terrestre e il paesaggio dell’anima, che sa cogliere molto bene la fenomenologia dell’esistenza, all’esterno e all’interno dell’uomo.

Una parola che lotta costantemente con il dolore e con la morte per sublimarli dall’assenza alla presenza, solo che la vita si riesca ad incarnare nella parola per farsi eterna. Per soggiornare dunque nel paradiso della parola, che è la vita ed è allo stesso tempo la poesia. Poesia che, unica, riesce a eternare l’istante, perfino quello della morte, per poter continuare nella ricerca del senso della vita. Quel senso che anche i nostri avi ci hanno trasmesso, se non nella sua certezza, nel dubbio, col suo tocco imponderabile, ma vitale, che ci spinge ad andare avanti fino alla fine, con la speranza che chi ci sarà dopo di noi potrà continuare nella ricerca di senso per non annegare nel nulla. Noi esseri umani, noi che veniamo all’esistenza gettati nel dubbio, dobbiamo prendere consapevolezza di quello che siamo e dobbiamo cercare di rendere autenticatale consapevolezza, prendendoci cura dell’essere, che abita nella parola e che nella parola dobbiamo eternare, stando attenti a non ridurre la parola alla banalità della pura chiacchiera. Che è quello che sapientemente riesce a fare in questa silloge Angela Caccia, che attraverso la sua virtuosità poetica crea un’opera d’arte valida su diversi piani, in primis quello letterario, ma anche estetico, etico, antropologico e civile. In attesa di quel tocco abarico del dubbio, che cerca risposte, forse senza mai trovarne, ma comunque sempre alla ricerca di senso, cercando di rispondere alla domanda: “Perché l’essere piuttosto che il nulla?”. E Angela Caccia, partendo da una prospettiva heideggeriana, che vuole l’uomo un-essere-per-la-morte, riesce a superare l’angoscia che ne deriva, per approdare all’esistenza autentica, in cui si accetta la propria finitezza e nullità da una parte, ma dall’altra si apre alla speranza riposta nell’eternità, che si incarna nella parola poetica e nel canto.    


                                                                 Maurizio Soldini